Giosue Carducci - Opera Omnia >>  Juvenilia




 

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[Epigrafe]

Nec tantum ingenio quantum servire dolori
Cogor et aetatis tempora dura queri.
Hic mihi conteritur vitae modus, haec mea forma est:
Hic cupio nomen carminis ire mei.


[Introduzione]

I.

PROLOGO

Ah per te Orazio prèdica al vento!
Del patrio carcere non sei contento,
La chiave abomini grata a i pudichi,
Agogni a l'aere de' luoghi aprichi.
E dove, o misero, dove n'andrai,
Dove un ricovero trovar potrai,
O de' miei giovini lustri diletto,
O mio carissimo tenue libretto?
Non sai fastidio ch'ha de le rime
questa de gli arcadi prole sublime:
Né de' romantici ti vuol la fiera
Che siede a i salici libera schiera.
Tu, se tra' lirici pur tenti il volo,
Poco, o mio tenero, t'ergi dal suolo;
Ed oggi innalzasi per nova via
Fin da' suoi numeri l'economia,
Né omai più reggono piedi né ale
Dietro la lirica universale.
Oggi ciclopica s'è fatta l'arte;
E Bronte e Sterope su per le carte
Con vene tumide, con occhi accesi
E con gli erculei muscoli tesi
A prova picchiano: Venere guata,
E gli rimescola la limonata:
Mentre il monocolo pastore etnese,
Succiando il femore d'un itacese,
Con urli orribili divelle un pino
E a le nereidi fa il mazzolino.
Deh, quanti, o misero, d'ispirazioni
Litri raccogliere puoi ne' polmoni,
Quanti chilometri de l'infinito
Puoi tu percorrere con passo ardito,
Quanti ravvolgerti chili d'affetto
Giù ne lo stomaco puoi tu, libretto,
Da uscire a gloria tra le persone,
Senza pericolo d'indigestione?
Te con le tenui miche d'Orazio
Crebbe la pallida musa del Lazio,
A te quell'aere parve bastante
Che respirarono l'Ariosto e Dante:
Chiede il novissimo stadio altre bighe:
Libro, rincàsati, cansa le brighe.
Vedi? minacciano Cariddi e Scilla:
Ti preme Davide con la Sibilla.
D'amor tu chiacchieri, e questo va:
Ma non santifichi la voluttà,
Non metti a Venere lo scapolare,
Non fai gli adùlteri sermoneggiare:
Onde, o me misero!, flebili e tristi
Già t'interdissero gli atei salmisti,
E il buon Petronio predicatore
Che a sé convertami pregò il signore.
Vinca ei di Taide le ritrosie
Con un trar mistico d'avemarie,
E de la cantica nel pio latino
Le infiori i dialoghi de l'Aretino.
Al limpidissimo suon de l'argento

Dietro un davidico cento per cento
Alfio gli sdruccioli deduca, e macro
Consoli il prossimo d'un inno sacro.
Per me in van prèdica ballonza e canta
Ebra l'Arcadia pur d'acqua santa,
Il sacro quindici refulse in vano
Per me: son reprobo più di Claudiano,
E de' Timotei e de' Basilii
Provai già i moniti e i supercilii.
Ma quel Timoteo che a gli anni andati
In chiesa l'organo sonava a i frati,
E di serafica broda satollo
Al pan de gli angeli rizzava il collo,
Cantando monache e Filomene
Pien di libidine tetra le vene;
E quel Basilio biondo e ventenne
Che al sacro fulmine tingea le penne
Ne l'aromatico miel del Loiola,
Al sacro fulmine de la parola
Che da l'iberiche fiamme già mosse
E ne gli eretici sterpi percosse;
Oggi levatisi di ginocchione
Anche rinnegano la dea Ragione,
E sempre al solito mo' tolleranti
Già già si cavano rugghiando i guanti,
Pronti a pur arderti, libretto mio,
Se in un avverbio c'entrasse dio.
Me al men, filosofi, non arderanno,
Come, teologi, volean l'altr'anno.
Ma chi, mal docile talpa infingarda,
Chi dal neofito furor mi guarda?
Quali su i ruderi de le memorie
Di laide maschere corsi e baldorie!
E sempre piangere plebe affamata,
E sempre ridere plebe indorata,
E basir tisica sotto le biche
La impronta logica de le formiche,
E de le favole, baie del nonno,
Schifi già i bamboli cascar di sonno
Io veggo; e torpido nel gran lavoro
Non canto e prèdico l'età de l'oro.
Chi dunque, indocile talpa infingarda,
Chi dal neofito furor mi guarda?
Gl'innocentissimi Nando e Poldino,
Che già l'immerito sermon latino
Stroppiaro in distici per nozze auguste,
Oggi rosseggiano come aliguste;
E l'eucaristico inno a Pio nono
Con lezion varia lusinga il trono
Di re Vittorio, da poi che aprile
A qualche anonimo spirto civile
Squagliò la gelida crosta, e, spavento!,
Il prete attonito, nel sacramento
Lavando al pargolo le nuove chiome,
Sentiva d'Italo bociarsi il nome.
O infelicissimo libro, o sfatato,
O in man purissime mal capitato!
Crollando il rigido frigio berretto
Fatto su 'l modulo che diè il prefetto,
Ei con iscandalo ti buttan là,
Come retrograda suipsità.
Rìzzati e vàttene, ché il galateo
Non è neofito. Ma, se ad un reo
Fucci filologo fia che t'abbatta
Rimpiallacciatosi da Guccio Imbratta,
Che vomitarono le sagrestie
De' galantuomini su per le vie,
Che ne le tuniche di pergamena
Tra la medicea ferrea catena
Tremano i codici quand'ei li guata
E dal liburnio remo invocata
La man lor applica, se a te vicino
Ei sbiechi il livido occhio porcino,
-- Deh, Fucci, gridagli, mercede imploro,
Non vesto, vedimi, d'argento e d'oro,
Non son de gli ordini privilegiati
Vuoi de' rarissimi vuoi de' citati,
Non ne i cataloghi cercato appaio,
Non c'è da vendermi che al salumaio.
A queste pagine di poco affare
Le man dottissime non abbassare. --
Oh, s'ei la granfia distenda a vuoto,
Appicca, o povero libro, il tuo vòto:
Ché a grandi e piccoli ei non perdona;
Ogni, anche minima, preda gli è buona.
Chiese, postriboli, caffè, spedali
Le sue sentirono unghie fatali,
Da quando ei l'abile man giovinetta
Da l'elemosine ne la cassetta
Imberbe chierico con occhio pio
Erudia, l'obolo rubando a Dio,
E i doni a l'umile Vergine apposti
Per lui fumavano fusi in arrosti.
D'altro non dubito: se bene ancora
Lui la chiarissima viltade adora,
Trason ridicolo che incarna e avanza
L'idea platonica de l'ignoranza,
Forte co' deboli, debol co' i forti,
Prode a trafiggere gli uomini morti,
Prode a nascondersi, ferendo il tergo,
Di birri e ipocriti sotto l'usbergo,
Tal ch'io non credomi maggior ribaldo
Redasse l'anima del Maramaldo.
Fuggi, o mio povero libro da bene,
Il ceffo orribile, le mani oscene,
L'invidia rabida d'ogni opra buona
Che tutta gli agita la rea persona.
Fuggi... No: sorgigli diritto in faccia,
La mia ripetigli vecchia minaccia,
Con fronte impavida, con voce intiera:
Fucci filologo, frusta e galera.
Poi, se la fulgida ira s'alléni,
Vola a i dolcissimi colli tirreni,
Ove dal facile giogo difese
In contro a borea d'ombra cortese
Svarian le candide magion pe' clivi
Tra vigne e glauche selve d'olivi.
Ivi di limpida luce più viva
Riveste l'etere la sacra riva;
E il sole arridere come ad amiche
Pare a le splendide colline antiche,
Quando, partendosi, la favolosa
Cima fesulea tinge di rosa.
De la virginea certa saetta
Ove ancor timido Mugnone affretta
Ad Arno e misero par che lamenti
I mal concessigli abbracciamenti
Tra il fiume e d'arido monte le spalle
Il pian riducesi in poca valle,
E in mezzo a' nitidi còlti un'ascosa
Da placidi alberi magion riposa.
Ivi, o mio tenue libro, al Chiarini
Chiedi pe' profughi geni latini,
Chiedi l'ospizio. Vedi: ei la porta
Già t'apre, ed ilare ti riconforta.
Ei di barbarica pelle odorata
Presto la tunica t'avrà comprata,
Cui solchi d'aurei fregi un lavoro
E i lembi nitidi sien tutti ad oro.
O mio carissimo già poverello,
Come or sei splendido, come sei bello!
T'invidia il tenero padre lontano,
Fucci filologo stende la mano.
Ma tu non avido di mutar loco
A l'aure estranee fìdati poco;
Ama de l'ospite ama il ricetto.
O mio carissimo tenue libretto.


II.

A G. C.

IN FRONTE A UNA RACCOLTA DI RIME
PUBBLICATA NEL MDCCCLVII

Forse avverrà, se destro il fato assente
Vòto che surga, pio di sen mortale,
Giuseppe, e s'a più ferma età non mènte
Il prometter di questa audace e frale,

Che in più libero cielo aderga l'ale,
D'amor, di sdegno e di pietà possente,
Questo verso, che fioco or passa quale
Eco notturna per vallea silente:

Pur caro a me, che del rio viver lasso,
Ma ogn'or di voi, sacre sorelle, amante
Lo inscrivo qui come in funereo sasso:

Pago se alcun dirà -- Tra 'l vulgo errante
Che il bel nome latino ha volto in basso
Fede ei teneva al buon Virgilio e a Dante.


LIBRO I

III.

Peregrino del ciel, garrulo a volo
Tu fuggi innanzi a le stagion nembose.
E vedi il Nilo e nostre itale rose,
Né muti stanza perché muti polo:

Se pur de le lontane amate cose
Cape ne' vostri angusti petti il duolo,
Né mai flutto inframesso o pingue suolo
Oblio del primo nido in cor ti pose;

Quando l'ala soffermi a' poggi lieti
Che digradano al mar da l'Apennino
Bianchi di marmi e bruni d'oliveti,

Una casa a la valle ed un giardino
Cerca, e, se 'l nuovo possessor no 'l vieti,
Salutali in mio nome, o peregrino.


IV.

Tu, mesta peregrina, il dolce nido
Lasci e de l'aer nostro il novo gelo:
T'invita più benigno ardor di cielo
E primavera di straniero lido.

E me lasci che tristi ore divido
Pur co 'l dolore onde i lassi occhi velo.
Tornerà tempo che senz'ombra o velo
Si porga l'aer nostro a te più fido.

Allor candidi soli; allor fiorente
Il colle e il piano; allor tutto d'amore
Ti riconsiglierà soavemente.

Né allor ti sovverrai l'uman dolore
Di che si piange or qui. Non acconsente
Al pianto, e oblia, de' fortunati il core.


V.

Sì crudelmente fero è quel flagello
Onde me già del breve correr lasso
Il disinganno sferza a ciascun passo,
Che fine io chiamo al reo cammin l'avello;

E tra forme gentili e nel più bello
Aprir de' floridi anni io l'occhio abbasso,
Quasi cercando oltre la terra il passo
A l'inamabil cieco ultimo ostello.

Ma di speme atteggiato e di dolore
Mi sofferma un sembiante; e lacrimoso
Pur in me guarda, e pio tace. Furore

Quinci ed amor nel petto procelloso
Surgono a gran tenzone; e vince amore:
Ond'io fremendo e sospirando poso.


VI.

Questa è l'altera giovinetta bella
Che tragge seco onesta leggiadria:
Beltade orna di gloria la sua via,
E l'addimostra per propria angiolella.

I' ho veduto Amor che la servia
Umilemente de le sue quadrella;
Sentit'ho gire per salute ad ella
L'alma ferita che dal cor si svia.

E chiama pur pietà nel suo conspetto,
Fin che quel riso onde s'allegra amore
Benignamente l'umile raccoglia.

Allor la vita esulta entro nel core,
E il cor si leva e la tristezza spoglia
Illuminato nel sereno aspetto.


VII.

O nova angela mia senz'ala a fianco,
Certo dal loco ove bellezza è pura
L'intelligenza tua vestì figura
Di pargoletta donna in velo bianco;

E qui venisti al secol rio, che stanco
Del bello adoperar più nel mal dura,
Per drizzar me fuor de la vita scura
Voglioso dietro le tue scorte e franco.

E ben forse avverrà ch'agile e scarco
Io prema ancor le tue vestigia sante
Con l'alma teco in un desio congiunta;

Se di tanto mi degna il Primo Amante,
Che, mentre io tenga del mortale incarco,
L'ale tue d'òr non mettan fuor la punta.


VIII.

Profonda, solitaria, immensa notte;
Visibil sonno del divin creato
Su le montagne già dal fulmin rotte,
Su le terre che l'uomo ha seminato;

Alte da i casti lumi ombre interrotte;
Cielo vasto, pacifico, stellato;
Lucide forme belle, al vostro fato,
Equabilmente, arcanamente, addotte;

Luna, e tu che i sereni e freddi argenti
Antica peregrina a i petti mesti
Ed a' lieti dispensi indifferenti:

Che misteri, che orror, dite, son questi?
Che siam, povera razza de i viventi?...
Ma tu, brutta quiete, immobil resti.


IX.

Candidi soli e riso di tramonti,
Mormoreggiar di selve brune a' venti
Con sussurrio di fredde acque cadenti
Giù per li verdi tramiti de' monti,

Ed Espero che roseo sormonti
Nel profondo seren de' firmamenti,
E chiara luna che i sentier tacenti
Inalbi e scherzi entro laghetti e fonti,

Questo m'era ne' vòti. Or miei desiri
Pace ebber qui tra fiumi e tra montagne
De le secure muse in compagnia:

Pace: se non che te ne' miei sospiri
Chiamo, te che da noi ti discompagne,
E il caro aspetto de la donna mia.


X.

Bella è la donna mia se volge i neri
Di soave languore occhi lucenti,
E, ricercando il vinto cor, le ardenti
Vi rinforza d'amor voglie e pensieri.

Più bella è la mia donna allor che alteri
Gli leva o gira nel conceder lenti,
E, minacciando pur, chiede ch'io tenti
La dolce guerra e la vittoria speri.

Cosa di cielo è la mia donna allora
Che il roseo collo piega e il vago riso
A i baci porge e quei d'ambrosia irrora.

Oh, che d'ogni mortal cura diviso,
Sopra quel sen, tra quegli amplessi io mora!
Né v'invidio, o beati, il paradiso.


XI.

A questi dí prima io la vidi. Uscía
A pena il fior di sua stagion novella,
E la persona pargoletta e bella
Era tutta d'amore un'armonia.

Vereconda su 'l labbro la fiorìa
L'ingenua grazia e la gentil favella:
Come in chiare acque albor lontan di stella
Ridea l'alma ne gli occhi e trasparìa

Tale io la vidi. Or con desio supremo
Lei per questo nefando aere smarrita
Pur cerco e invoco; e sol mi sento, e tremo;

Ché spento è al tutto ogni buon lume, e vita
Già m'abbandona, e son quasi a l'estremo.
Luce de gli anni miei, dove se' gita?


XII.

Quella cura che ogn'or dentro mi piagne
Desta dal lume in duo begli occhi ardente,
Me co 'l giorno invernale ove il torrente
Scoscende e ne le avverse alpi si fragne

Seco rapisce. E te, che ti scompagne
Dal mio già fermo petto, o confidente
Virtude onde fuggii la vulgar gente,
Penso per erma via d'aspre montagne.

Ma vince de le alpestri onde il fragore
Quell'una voce sua: suoi cari accenti
Sona l'aura selvaggia. E in van nel core

Sdegno e ragion contrasta. Io miro a' venti
Lente ondeggiar le nere chiome e amore
Folgorar ne' superbi occhi ridenti.


XIII.

E tu pur riedi, amore; e tu l'irosa
Anima invadi, e fiero ivi t'accampi,
E i desueti spirti e il cor che posa
Lunga già s'ebbe or fiedi e scuoti e avvampi.

Io te fuggo per selve aspre e per campi:
Ma vive alta nel petto, e sanguinosa
Stride la piaga; e il mio duol grida: e cosa
Mortal non è che di tua man mi scampi.

O degni affetti, o studi almi! In servaggio
Duro vi piango e in basso errore, ov'io
Caddi e giacqui co 'l vulgo, e non mi levo:

Ché pur mi preme di quegli occhi il raggio,
Di quei cari e superbi occhi ond'io bevo
Lenti incendi e furor lungo ed oblio.


XIV.

Né mai levò sí neri occhi lucenti
Saffo i preghi cantando a Citerea,
Quando nel petto e per le vene ardenti
A lei sí come nembo amor scendea;

Né desti mai sí molli chiome a' venti,
Corinna, tu sovra l'arena elea,
Quando sotto le corde auree gementi
Fremeati il seno e a te Grecia tacea;

Sí come or questa giovinetta bella
Tremanti di desio gli umidi rai
E del crin la fulgente onda raccoglie,

In quel che dolce guarda, e la favella,
Qual tra le rose aura d'april, discioglie:
Onde ardo, e posa non avrò più mai.


XV.

Deh, chi mi torna a voi, cime tirrene
Onde Fiesole al pian sorride e mira?
Deh, chi mi posa sotto l'ombre amene
Ove un rio piange e molle il vento spira?

Oh, viva io là fuor di timore e spene,
Lontan rugghiando de' miei fati l'ira!
L'erbe il ciel l'onde ivi d'amor son piene,
E ne l'aure odorate amor sospira.

A te il suolo beato eterni fiori
Sommetterebbe, Egeria; e d'ombre sante
Proteggerebbe un lauro i nostri amori.

Ivi queto morrei. Tu al sol levante
Mi comporresti l'urna in tra gli allori,
L'ombra chiamando del poeta amante.


XVI.

E degno è ben, però ch'a te potei,
Lasso!, chinar l'ingegno integro eretto,
S'ora in gioco tu volgi, e lieto obietto
L'ire, o donna, ti sono e i dolor miei.

Io quel dì che mie voglie a te credei
Pur vagheggiando accuso; e strappo e getto
Tua terribile imagine dal petto
In van: tu meco, erinni mia, tu sei.

Ahi donna! ne le miti aure è il sorriso
Di primavera, e il sole è radiante,
E il verde pian del lume aureo s'allegra.

A me di noia, a me d'orror sembiante
È quant'io veggo; e, se nel ciel m'affiso,
De la mia cura e il divo ciel s'annegra.


XVII.

Cara benda che in van mi contendesti
Nera il candido sen d'Egeria mia,
Spoglia già gloriosa, or ne' dì mesti
De le gioie che fûr memoria pia:

Tu sol di tanto amore oggi mi resti,
E l'inganno mio dolce anche peria;
Ond'io te stringo al nudo petto, e questi
Freddi baci t'imprimo. Ahi, ma la ria

Fiamma pur vive e pur divampa orrenda;
E tu su 'l cor, tu su 'l mio cor ti stai
Quasi face d'inferno, o lieve benda.

Deh, perisci tu ancor. Né sia più mai
Cosa che a questa offesa anima apprenda
Com'io di donna a servitù piegai.


XVIII.

E tu, venuto a' belli anni ridenti
Quando a la vita il cor più si disserra,
Contendi al fato il prode animo, e in terra
Poni le membra di vigor fiorenti.

Ahi, ahi fratello mio! Deh, quanta guerra
di mesti affetti e di pensier frementi
Te su gli occhi de' tuoi dolci parenti
Spingeva ad affrettar pace sotterra!

Or teco posa il tuo dolor. Né il viso
Più de la madre e non la donna cara
O il fratel giovinetto o il padre pio,

Né i verdi campi vedrai più; né il riso
Del ciel, né questa luce... ahi luce amara!
Vale, vale in eterno, o fratel mio.


XIX.

Te gridi vil quei che piegò la scema
Alma sotto ogni danno ed a l'ostile
Possa adulò, pago a cessar l'estrema
Liberatrice d'ogni cor gentile:

Te gridi vile il mondo, il mondo vile
Che muor di febbre su le piume, e trema,
Pur franto da la lunga età senile.
In conspetto a la sacra ora suprema.

Ben te, o fratel, di ricordanza pia
Proseguirà qual cor senta i funesti
Regni del fato e il viver nostro orrendo,

Te che di sangue spaziosa via
A l'indignato spirito schiudesti,
Giovinetto a la morte sorridendo.


XX.

E voi, se fia che l'imminente possa
Deprechiate e del fato empio le guerre,
Voi non avrete a cui regger si possa
Vostra vecchiezza quando orba si atterre.

Soli del figliuol vostro in su la fossa
Quel dí che i dolorosi occhi vi serre
Aspetterete. O forse no. Son l'ossa
Sparse de' nostri per diverse terre.

Oh, che il dí vostro d'atre nubi pieno
Non tramonti in procella! oh, che il diletto
Capo si posi ad un fidato seno!

Io chiamo in vano al mio paterno tetto,
E cresce il tedio e gioventú vien meno.
Deh, chi mi torna, o buoni, al vostro petto?


XXI.

O cara al pensier mio terra gentile
Ch'a la pura sorgendo aria azzurrina
D'alto vagheggi regnatrice umìle
Il pian che largo al biondo Arno dichina:

Tu ridi allegra al ciel che di simìle
Gioia t'arride e al tuo favor s'inchina;
A te dolci aure, a te perenne aprile
Veston di verde il campo e la collina.

E a te da questo inverno reo la mente
Ed il cuor lasso mio tendono a volo:
Tu tieni l'uno e l'altro mio parente

Co 'l fratel che mi avanza, e del tuo suolo
Abbracci quel ch'io non baciai morente:
In te tutto è il mio bene: io qui son solo.


XXII.

Qui, dove irato a gli anni tuoi novelli
Sedesti a ragionar co 'l tuo dolore,
Veggo a' tepidi sol questi arboscelli,
Che tu vedevi, rilevarsi in fiore.

Tu non ti levi, o fratel mio. D'amore
Cantan su la tua fossa erma gli uccelli:
Tu amor non senti; e di sereno ardore
Più non scintilleran gli occhi tuoi belli.

Ed in festa venir qui ti vid'io
Oggi fa l'anno; e il dire anco mi sona
E ancor m'arride il tuo sorriso pio.

Come quel giorno, il borgo oggi risona
E si rallegra del risorto iddio,
Ma terra copre tua gentil persona.


XXIII.

Non son quell'io che già d'amiche cene
Destai la gioia tra' bicchier spumanti.
Torpe la mente irrigidita, e piene
D'amaro tedio stan l'ore cessanti.

Ira è che il viver mio fero sostiene
Sol una, e il cor con sue tede fumanti
M'arde e depreda. O miei verd'anni, o spene
Mia che mi giaci, ahi già sfiorita, innanti!

Anche del caro imaginar la brama
Al tempo m'abbandona; e resta, immane
Muto fantasma, intorno a me, la vita.

Ma un'ombra io sento che il mio nome chiama,
E duolsi a me che sola ella rimane,
E di là da le quete onde m'invita.


LIBRO II

XXIV.

INVOCAZIONE

Se te già tolsi con incerta mano
Da latin ramo onde ancor Febo spira,
Caro a le Grazie or tu sonami, o lira,
Carme toscano.

Canora amica, o le falangi astate
Ferocemente confortasse in guerra,
O riposasse ne la franca terra,
Al lesbio vate

Tu gli dicevi e Cipride ed Amore
E giovin sempre di Semèle il figlio
E 'l crin di Lico e de l'arcato ciglio
L'ampio fulgore.

Or io ti scoto. A me sorride il puro
Genio di Flacco: a' divinati allori
E de le ninfe a' radianti cori
Movo securo.

O cara a Giove ed a re Febo, insigne
Di cittadine mura adornamento,
Rispondi al vòto; e sperda il tuo concento
L'alme maligne.


XXV.

A O. T. T.

Caro a le vergini d'Ascra e di belle
Mortali vergini cura e diletto,
O a me di mutua fede costretto
Da eguali stelle,

Ottavio: i codici d'aurea favella
Dove il tuo spendesi tempo migliore,
Che da te chieggono novo splendore,
Vita più bella,

Poni: ed i lirici metri, che apprese
A me la duplice musa di Flacco,
Qui tra le candide gioie di Bacco
Odi cortese.

Avvi cui 'l torbido Gradivo arride,
Ed ama il rapido baglior d'elmetti
Ne l'aer livida che da' moschetti
Divisa stride,

E via tra l'orride membra che sparte
Incèstan d'ampia strage il sentiero
Urta il fulmineo baio destriero
Furia di Marte;

Poi lunge a' fulgidi campi ed a' valli,
Nel sen d'ingenua sposa che agogna
Notturni gaudii, feroce ei sogna
Trombe e timballi.

Con altri l'àlacre fame de l'oro
Ascende vigile la prora, e anela
Le infami insidie drizza e la vela
Al lido moro.

Per essa il nauta ride i furori
D'euro che gl'ispidi flutti cavalca,
E con la cupida mente egli calca
Rischi e terrori:

In vano l'orrido crin sanguinante
Infesto Orione pe 'l ciel distende
Ed il terribile di fiamma accende
Brando strisciante:

Bianca di naufraghe ossa minaccia
La riva squallida: dal patrio lido
La figlia chiamalo con lungo strido
Pallida in faccia.

Ed altri docile guerrier d'amore
In tra le pafie rose vivaci
De le virginee lutte co' baci
Desta il furore;

E sopra un niveo petto, di glorie
La fronte carica, stanco a le prove,
Depone; ed agita, posando, nove
Pugne e vittorie.

E me le libere Muse nel casto
Seno raccolgano, me loro amante
Le dee proteggano del vulgo errante
Dal vano fasto.

Me non contamini venduta lode
Non premio sordido d'util perfidia:
Vinca io con semplice petto l'invidia,
Vinca la frode.

Ed oh se un tenue spirto l'argiva
Camena infondami! se a me ne' lieti
Fantasmi lucidi de' suoi poeti
Grecia riviva!

Non io l'Apolline cimbro inchinai,
Io tòsco e memore de l'are attee;
Né di barbariche tazze circee
Ebro saltai.

Ottavio, al libero genio romano
Libiam noi liberi qui nel gentile
Terren d'Etruria: lunge il servile
Gregge profano.


XXVI.

CANTO DI PRIMAVERA

Qual sovra la profonda
Pace del glauco pelago
Uscì Venere, e l'onda
Accese e l'aer e l'isole,
Quando al ciel le divine
Luci alzò raccogliendo il molle crine;

Primavera beata
Su le pianure italiche
Sorride. Ogni creata
Cosa in vista rallegrasi:
Scherza con l'aura e il fiore
E vola nel sereno etere Amore.
Entro la chiusa stanza
Medita Amore, trovalo
In fragorosa danza
La giovinetta, ed integra
Cede a' futuri affanni
L'inconsapevol cuore e i candidi anni.

D'ebrietà possente
Sale dal suol che vegeta
Un senso: al cor fremente
Il mondo antico vestesi
Di novi incanti, e a' petti
Novi palpiti chiede e novi affetti.

Transvolar le serene
Forme de' sogni improvvido
L'uom ricontempla: arene
E deserto il ricingono:
La falsa imago anelo
Lui tragge ove più stride il verno e il gelo.

Tal, se l'alta marina
Ara e l'insonne Atlantico,
Vede, allor che ruina
La notte solitaria,
L'elvezio infermo il rio
Alpin ne l'onde salse, e del natio

Monte le vacche quete
Pender da i verdi pascoli,
E tra l'ombre segrete
Un'aspettante vergine
Cantar, molle la guancia;
Vede, ed in contro a lei nel mar si lancia,

Che sopra gli si chiude
Muto. O soavi imagini,
Pur d'ogni senso nude;
O d'inconsulti palpiti
Desio profondo arcano;
Ultima gioventù del cuore umano!

Questa che deludete
Misera prole, o perfidi,
Quanto ha di voi pur sete!
E vi saluta reduci
Insieme al riso alterno
Onde s'attempa il vol de l'orbe eterno.

Culto tra i feri studi
Sacro un giorno a' romulidi,
E di solenni ludi
Empiea sonante l'isola
Che il Tebro ad Ostia in faccia
Lieta di paschi e di roseti abbraccia.

Dal dí che il mese adduce
De la marina Venere
Sino a la terza luce
Già sorta a gl'incunabuli
Di Quirin, la gioconda
Festa correa per la fiorita sponda.

E qui belle traéno
A' rosei tabernacoli
Donzellette cui 'l seno
Tra i bianchi lin moveasi
Intatto anche a gli amori.
Sotto gli astri roranti e a' miti ardori

Del sole i verginali
Carmi intorno volavano,
Mentre il piacer da l'ali
Stillava ingenuo nèttare
E Terpsicore dea
Invisibil co 'l suon danze movea.

“La sposa ecco di Tèreo
Canta tra i verdi rami,
Né par che omai del barbaro
Marito si richiami:
Più scorte note a lei
Amore insegna e più soavi omei.

Canta: e noi mute, o vergini,
L'udiamo. Oh quando fia
Che venga e me pur susciti
La primavera mia,
E rondine io diventi
Che l'allegra canzon commette a' venti?
Già voluttade l'aere
Empie di rosei lampi:
Sentono i campi Venere,
Amor nacque ne i campi:
Effuso dal terreno
Lui raccolse la dea nel latteo seno.

E lo nudrîr le lacrime
D'odorati arboscelli,
E lo addormiro i gemiti
De l'aure e de' ruscelli,
E lo educaro i molli
Baci de' fiori in su gli aperti colli.

L'umor che gli astri piangono
Per la notte serena
Sottil corre a la nubile
Rosa di vena in vena,
Onde al zefiro sposo
Sciolga il peplo domani e il sen pomposo.

Di Cipri ella da l'ìcore
Nata d'Amor tra i baci
Tien gemme e fiamme e porpore,
O Ciel, da le tue faci;
E conoscente figlia
A le tue nozze il talamo invermiglia,

Allor che da le pendule
Nubi la maritale
Pioggia a la Terra cupida
Discende in grembo, ed ale
Nel vasto corpo i vasti
Feti che tu, Ciel genitor, creasti.

Dal sangue tuo l'oceano
Tra selve di coralli,
Tra le caterve cerule
E i bipedi cavalli,
A i liti almi del lume
Vener produsse avvolta in bianche spume

Ed ella or del suo spirito
Le menti arde e le vene,
Del nuovo anno l'imperio
Procreatrice tiene,
Ed aria e terra e mare
Soave riconsiglia a sempre amare.

Da i boschi, o delia vergine,
Cedi per oggi: noi
Invia la diva placide
Nunzie de' voler suoi:
Non macchi, ahimè!, ferina
Strage la selva il dì ch'ella è reina.
Essa a le ninfe il mìrteo
Bosco d'entrare impone:
Amore a quelle aggiugnesi,
Ma l'armi pria depone.
Francate, o ninfe, il core:
Posto ha giù l'armi, è feriato Amore.

La madre il volle, pavida
No il picciolin rubello
Altrui ferisca improvvido.
Ma pur Cupido è bello.
Guardate, o ninfe, il core:
È tutto in armi, anche se nudo, Amore.

Con lui fermò nel Lazio
De' lari idei l'esiglio,
E una laurente vergine
La dea concesse al figlio
D'Anchise; e quindi a Marte,
Sbigottita orfanella in chiome sparte.

Di Vesta ella dal tempio
Traea la sacerdote:
Onde il gran padre Romolo
E Cesare nipote;
Onde i Ramni e i Quiriti,
E tu o Roma, signora in tutti i liti.”

Beate! e i lieti cori
Non rompea lituo barbaro,
Né i verecondi amori
Turbava allora il fremito
Che dal core ne preme
La tradita d'Italia ultima speme.

Nel sangue nostro i nostri
Campi ringiovaniscono;
E quando lento i chiostri
Del verde pian d'Insubria
Apre l'aratro e frange,
Su l'ossa rivelate un padre piange.

Non biondeggia superba
Da' nostri solchi cerere,
Ma lei calpesta acerba
L'ugna de' rei quadrupedi;
E tu, vento sereno,
Scaldi a' tiranni osceni amor nel seno.

Oh quando fia che d'armi
E monte e piano fremano
A' rai del sol, e i carmi
Del trionfo ridestino
Co' suon del prisco orgoglio
I numi addormentati in Campidoglio?
Te allor, cinti la chioma
De l'arbuscel di Venere,
Canterem, madre Roma;
Te del cui santo nascere
Il lieto april s'onora,
Te de la nostra gente arcana Flora.


XXVII.

A FEBO APOLLINE

De la quadriga eterea
Agitator sovrano,
Sferza i focosi alipedi,
Bellissimo Titano.

Te pur, de l'ugna indocile
Stancando il balzo eoo,
Chiamaro in van ne' vigili
Nitriti Eto e Piroo,

Quando la bella Orcamide
Ti palpitò su 'l core
E gli achemenii talami
Chiuse ridendo Amore.

E a noi con l'alma Venere
Facile Amor si mostra,
E noi gli amplessi affrettano
De la fanciulla nostra.

In vano, in van la rigida
Madrigna a me la niega:
Amor che tutto supera,
Amor che tutto spiega,

Vuol, fausto iddio, commetterla
Ne le mie mani e vuole
I nostri amor congiungere,
Te declinato, o Sole.

Ed ella omai le tacite
Cure nel petto anelo
Volge, e te guarda. Oh giungati
Il caro sguardo in cielo!

Dolce fiammeggian l'umide
Luci nel vano immote:
Siede pallor lievissimo
In su le rosee gote.

Ecco, presente Venere
Ne l'anima pudica
Regna, e il pensier virgineo
Con forza empia affatica.

Cotal forse aggiravasi
Ne la stanza odiosa
Del giovinetto Piramo
L'inaugurata sposa.

E in cor pensava i gaudii
Al fido orror commessi
Ed i furtivi talami
E i raddoppiati amplessi:

In tanto Amor gemeane,
De' preparati lutti
Già fatalmente prèsago
E de' mutati frutti.

Ma le dolenti imagini
Si portin gli euri in mare:
Diciam parole prospere:
Benigno Amor ne appare.

Oh sperar lungo e timido,
Oh d'angosciose notti
False quieti, oh torbidi
Sogni dal pianto rotti!

Mercé, mercé! pur compiesi
Il dolce e fier desio,
Pur debbo al fine io stringerla
Su questo petto mio!

Ah no che sen più candido
Endimion non strinse
Quando notturna Venere
La schiva dea gli scinse!

Io ardo. Amore infuria
Nel fulminato petto;
E corro, e guardo, ed Espero
Gridando in cielo affretto.

Pietà, divino Apolline!
Spingi i destrier celesti,
Le inerti Ore sollecita;
Ruina... A che t'arresti?

E ancor rattieni il cocchio
In su l'estrema curva?
E ancor l'ancella undecima
Lenta su 'l fren s'incurva?

Male io sperai te facile
Al suon di mie querele,
Sempre agli amanti infausto,
Sempre in amor crudele!

Clizia oceania vergine
Per te conversa in fiore
Ancor mutata sèrbati
Il non mutato amore.

Imprecò già Coronide
Per te al disciolto cinto:
Amicle un giorno e Tàigeta
Pianser per te Giacinto.

Ma e tu d'amor gl'imperii,
Tu, petto immansueto,
Durasti; e i greggi a pascere
Pur ti ritenne Admeto.

Te solitari attesero
I templi ermi del cielo,
Né più muggìa da gli aditi
La religion di Delo.

Giacea de' tori indocili
Dal vago piè calcato
L'arco divino argenteo
In abbandon su 'l prato.

Né bastò l'arte medica
Verso la cura nova:
Ahi, sol di furie e lacrime
Il nostro iddio si giova.

Né tra le dita ambrosie
Più ti splendea la lira,
Quella onde al padre caddero
Sovente i fuochi e l'ira.

E che? l'avena rustica
Dal labbro tuo risona,
O figlio de l'Egioco,
O figlio di Latona?

Tu d'amor gemi, ed orride
Co 'l muggito diverso
Rompon le vacche tessale
La dotta voce e il verso.

Fama è però che memore
Tu de l'incendio antico
A gli amorosi giovini
Nume ti porgi amico.

E i vòti a te salirono
Del buon Cerinto grati,
Quando immaturi pressero
L'egra Sulpizia i fati:

Tu al bel corpo le mediche
Mani applicar godesti,
Tu al giovinetto cupido
Integra lei rendesti.

E giorno fu che in trepida
Cura Tibullo ardea;
Varia di amori il candido
Vate Neèra angea.

Gemeva egli le vigili
Piume stancando in vano:
Ma in piena luce videti
Il cavalier romano.

Pe 'l lungo collo eburneo
Intonsi i crin fluire
Vide e stillar la mirtea
Chioma rugiada assire.

Qual de la luna in placido
Sereno, era il candore:
Era nel corpo niveo
Di porpora il colore,

Come al settembre tingonsi
Bianche mele fragranti,
Come fanciulle intrecciano
I gigli a li amaranti.

-- Soffri, dicesti: ad Albio
Serbata è pur Neera:
Tendi le braccia a i superi
Con molta prece, e spera. --

E anch'io pregai: di lacrime
Io gli abbracciati altari
Sparsi: e non furo i superi
A me di grazia avari.

Non io lamento perfida
La mia fanciulla, escluso
Non io gli aspri fastidii
De la superba accuso;

Né de le mense eteree
Vuo' che ti prenda oblio
Ed entri, almo Latoide,
Quest'umil tetto mio.

Mi dolgo io ben che tardisi
A le mie gioie l'ora
Dal corso tuo che a Nèreo
Par non accenni ancora.

Dolgomi... Ahi folle! inutili
Querele io spando: errore
Al cor m'induce il memore
Libetrico furore.

Te da le valli tessale,
Te da l'egea marina
Vedea de' vati ellenici
La fantasia divina,

Giovine iddio bellissimo
Pe' i cieli ermi sorgente:
Ignei tu avevi alipedi,
Carro di fiamma ardente;

E intorno ti danzavano
Ne la serena spera
Le ventiquattro vergini,
Fosca e vermiglia schiera.

Né vivi tu? né giunseti
Del vecchio Omero il verso?
E Proclo in van chiamavati
Amor de l'universo?

Il vero inesorabile
Di fredda ombra covrio
Te larva d'altri secoli,
Nume de' greci e mio.

Or dove il cocchio e l'aure
Giovanil chioma e' rai?
Tu bruta mole sfolgori
Di muto fuoco, e stai.

Ahi! da le terre ausonie
Tutti fuggîr li dèi:
In vasta solitudine,
O Musa mia, tu sei.

In vano, o ionia vergine,
Canti, ed evochi Omero:
Surge, e minaccia squallido
Da' suoi deserti il vero.

Vale, o Titano Apolline,
Re del volubil anno!
Or solitario avanzami
Amore, ultimo inganno.

Andiam: de la mia Delia
Ne gli atti e nel sorriso
Le Grazie a me si mostrino
Quai le mirò Cefiso;

E pèra il grave secolo
Che vita mi spegnea,
Che agghiaccia il canto ellenico
Ne l'anima febea!


XXVIII.

A DIANA TRIVIA

Tu cui reina il cieco Erebo tiene
E Arcadia in terra cacciatrice t'ama,
Ma in ciel de l'Ore il biondo stuol ti chiama
Bella Selene;

Ora che i bianchi corridor del lento
Freno tu tempri e regni su la diva
Notte, m'ascolta; se da noi t'arriva
Prego o lamento.

Non tra quest'ombre io la vendetta affretto
Già meditata; il casto raggio odiando,
Non io prorompo a invadere co 'l brando
Cognato petto.

Io amo: e Cintia, l'espugnata al fine
Cintia superba, a' novi amor si rende;

E, dubitosa, del notturno scende
Orto al confine.

Che tu nel carro de la luna stai
Intemerata come il ciel cui reggi,
Che dea severa te d'amor le leggi
Non piegâr mai,

Cantano i vati: ma non sempre varia
De' prometìdi su le brevi paci
Vegli, ma in terra ti detragge a i baci
Giovin di Caria.

Allor l'ambrosia i tuoi cavalli erranti
Pascono, l'aere alto silenzio ingombra,
E te lodando mesconsi per l'ombra
Sacra gli amanti.

Or, bella diva, or vela il tuo splendore:
Corri pe' templi aerei tacente:
Me Amor precede, e rompe la cedente
Tenebra Amore.

Tu passi e splendi: sotto il vivo raggio
Ride il giardino in ogni lato aperto:
Io tra li sguardi curiosi incerto
Fermo il viaggio.

Ah falsa dea! va' su' misteri orrendi
De' druidi a correr sanguinosa, ascolta
L'emonie voci, e da le maghe svolta
Ne l'orgie scendi.

E già scendesti da l'argentea biga
Ostie d'umani e d'ospiti a mirare
Su l'aspra riva cui l'aquilonare
Flutto castiga:

Più rea che quando il fior del disonesto
Eburneo corpo abbandonasti a Pane,
Calda d'amore a le donate lane,
Fredda pe 'l resto.

Oh ben ti tolse il gran senno odierno
E biga e soglio! Un vano idolo or sei:
E anch'io ti spregio, e torno a' patrii dèi
Vate moderno.


XXIX.

BRINDISI

Beviam, se non ci arridano
Le sacre Muse indarno,
Ora che artoa caligine
Preme i laureti d'Arno.

Gema e ne l'astro pallido
Stanchi le inferme ciglia
La scelerata astemia
Romantica famiglia:

A noi progenie italica
Ridan gli dèi del Lazio,
La madre de gli Eneadi
E l'armonia d'Orazio.

M'inganno? o un'aura lirica
Intorno a me s'aggira?
Flacco, io ti sento: oh, al memore
Convivio assisti e spira!

Or che percuote l'ungaro
Destrier la valle ocnea,
E freme il lituo retico
Dove Maron nascea;

Or che l'efòd levitico
La diva Roma oscura,
E altier di Brenno il milite
La sacra via misura;

Qui cupe tazze vuotansi
Secondo il patrio rito,
Ben che sia lunge l'arbitro
Dal libero convito.

Flacco, il tuo bello Apolline
Fuggì dal suol latino
Cedendo innanzi a Teutate
Ed a l'informe Odino,

La musa a noi da gelide
Alpi tedesche or suona,
Turba un vil gregge i nitidi
Lavacri d'Elicona:

Noi pochi e puri (il secolo
Síeci, se vuol, nemico)

Libiamo a Febo Apolline
E al santo carme antico.

Lenti, e che state? or s'alzino
Colme le tazze al vòto.
A le decenti Cariti,
Ecco, tre nappi io vuoto.

Sacro a' sapienti è il numero
De i nappi tre: ma nove
A noi ne chieggon l'ìmpari
Figliuole ascree di Giove.

Né san le dive offendersi
Del temperato bere,
Né tu discordi, o Libero,
Da le virtù severe.

Anch'ei la tazza intrepido
Catone al servo chiese,
Poi ripensando a Cesare
Il roman ferro prese:

E, in quel che Bruto vigila
Su le platonie carte,
Cass'io tra' lieti cecubi
Gl'idi aspettò di Marte.


XXX.

VÒTO

Agitatrice de le forti selve,
Amor di Giove e di Latona vanto,
Diva da l'arco, cui de l'Erimanto
Temon le belve:

S'io per te dòmo il fulminante orgoglio
Del reo cignale su quel nero monte,
Io questo pino da l'aerea fronte
Sacrar ti voglio.

Diran dal tronco le mascelle appese
Con tale scritta le sudate prove:
A la dea prole di Latona e Giove
Delio lunese.


XXXI.

A NEERA

L'olmo e la verde sposa
Vedi in florido amplesso accolti e stretti:
Vedi a l'ilice annosa
Attorcersi i corimbi giovinetti.

Deh! se del roseo braccio
Così, bianca Neera, m'avvincessi,
E tra 'l soave laccio
Il capo stanco io nel tuo sen ponessi,

Un lungo amore insieme
Giugnendo l'alme ognor, dolcezza mia
Non altra gioia o speme,
Non altro a desiar lo spirto avria.

Non me non me dal fiore
Del caro labbro, fin di tutte brame
Svegliar potria sopore,
Non cura di lieo, non dura fame.

Allor noi senza duolo
Il fato colga; innamorati spirti
Noi tragga un legno solo,
Pallido Dite, a' suoi secreti mirti.

Di ciel che mai non verna
La ferma ivi berremmo aura sincera,
Sotto i piè nostri eterna
Rinascendo co' fior la primavera.

In tra i nobili eroi
Ivi a' ben nati amor vivono ognora
L'eroine onde a noi
Mormora un suon d'esigua fama ancora,

E menan danze, e alterni
Canti giungono al suon d'alterna lira;
E su' germogli eterni
Zefiro senza mutamento spira.

Scherza con l'òra incerta
Di lauri un bosco; de le aulenti frondi
Sotto l'ombra conserta
Ridon le rose ed i giacinti biondi.

A l'ombre pie d'intorno,
Non da rigidi imperi esercitato,
Sotto il purpureo giorno
Germina splende e olezza il suol beato.

Solinga ombra amorosa
Ivi oblia Saffo la leucadia pietra,
E pur languida posa
La tenue fronte su la dotta cetra.

Siede Tibullo a l'ombra
Ove docil da' colli un rio declina;
E di dolcezza ingombra
I sacri elisii l'armonia latina.

E noi, Neera, il canto
De' morti udrem; noi sederem tra' fiori
De l'asfodelo. Intanto
Mesciamo i dolci e fuggitivi amori.


XXXII.

PRIMAVERA CINESE

Or sono i dí che zefiro
Tepido e lieve aleggia
E che la pioggia placida
I novi fior careggia.

Ora un mattino in floridi
Rami le gemme afforza
Che timidette ruppero
Da la materna scorza.

Or a gli affetti sposansi
I facili pensieri
E impazienti volano
In cantici leggeri,

Come la nebbia ch'umida
Gli archi del ponte gira,
Come quest'ombra tremula
Ad ogni aura che spira.

Oh misero a cui scemasi
De gli anni il bel tesoro
Mentre a la terra indocile
Chiede l'inutil oro!

La neve ch'empiea rigida
Tutto pur dianzi il cielo,
E i fior che lieti salgono
Dal fuggitivo gelo,

Son de la vita imagine
Fuggente, e in lei s'appaga
Tra i desiderii l'anima
E le memorie vaga.

Pace! Anche tu, bellissima
Colomba viatrice
Che lamentando mormori
Da la natia pendice,

Se pietosa il numero
De' miei pensier richiedi,
Lascia il soave gemito
Ed al tuo nido riedi.

Pria conteransi i tumidi
Germi che il suolo or manda
E i fiori onde sí splendida
Quest'albero ha ghirlanda.


XXXIII.

ALLA B. DIANA GIUNTINI

VENERATA IN SANTA MARIA A MONTE

Qui dove arride i fortunati clivi
Perenne aprile e l'aure molli odora
E ondeggian mèssi e placido d'olivi
Bosco s'infiora,

Quando pie voglie e be' costumi onesti
Erano in pregio e cortesia fioriva
Le tòsche terre, qui l'uman traesti
Tuo giorno, o diva.

E ti fûr vanto gli amorosi affanni
Onde nutristi a Dio la nova etate,
E fredda e sola ne l'ardor de gli anni
Virginitate:

Pur risplendeva oltre il mortal costume
La dia bellezza nel sereno viso,
E dolce ardea di giovinezza il lume
Nel tuo sorriso.

Te in luce aperta qui l'eteree menti
Consolâr prima di letizia arcana,
Poi te beata salutar le genti,
Alma Diana.

Onde a te dotta de l'uman dolore
Il nostro canto e prece d'inni ascende,
E, pieno l'anno, di votivo onore
L'ara ti splende.

A te l'industre opera cessa: posa
A te il travaglio de la vita e l'egra
Noia: si spande per le vie festosa
Turba e s'allegra.

Disciolto il bove mormora un muggito,
Esulta il gregge ne l'erboso piano,
E su l'aratro ancor dal solco attrito
Canta il villano.

Deh, sii presente: il tuo terren natale
A te s'adorna, ed al tuo piede in tanto
Gigli sommette e rose e l'immortale
Fior d'amaranto.

Deh, sii presente: e ne' concilii santi
Se nostra dirti, o buona, anco ti giova,
Del gener tristo e de gli infermi erranti
Amor ti mova.

Odi le caste vergini: il lamento
De la canuta etade odi; e su 'l pio
Vulgo com'aura di benigno vento
Spira da Dio.

Ruinan, vedi, a soffrir tutto audaci
Le menti umane in disperata guerra,
E de le furie le sanguigne faci
Corron la terra:

Odio e furore i torvi animi avvampa
E ciechi mena con la sua rapina
Ove pietade è in bando, ove s'accampa
L'ira divina:

Erra in ombra di morte e le vitali
Fiamme rifugge la mortal ragione,
E di pensieri ferve e di pugnali
Bieca tenzone.

Ma noi pio gregge a te su 'l puro altare
Vòti mandiamo a cui pietà risponde:
Ragguarda, o buona, a' figli, ed abbi care
Le nostre sponde.

Volgi sereno a questi campi il sole,
Benigna assisti a' focolari aviti:
Multiplicata invochi te la prole
Co' patrii riti.

Qui de le caste menti ama il governo:
Qui santa e madre al popol tuo ti mostra:
Né a danno irrompa qui possa d'inferno.
Te duce nostra.


XXXIV.

A GIULIO

Non sempre aquario verna, né assidue
Nubi si addensano, piogge si versano
Malinconicamente
Sovra il piano squallente:

Non sempre l'arida chioma a le roveri
I torbid'impeti d'euro affaticano,
Né dura artico ghiaccio
A industri legni impaccio:

Ma tu, o che vespero levi la rosea
Face sull'ampio del ciel silenzio
O fugga al sol d'avanti
Mal gradito a gli amanti,

Tu sempre in flebili modi elegiaci,
Lamenti, o Giulio, la cara vergine
Che il fren de' tuoi pensieri
Reggea con gli occhi neri.

Oh non continue querele e gemiti
Commise a' dorici metri Simonide;
Né ogn'or gemé in Valchiusa
Nostra più dolce musa,

Sí fra le memori tombe romulee
Destò l'italica speme, e del lauro
Di Gracco ornò la chioma
Al tribuno di Roma;

E anch'oggi splendidi gli sdegni vivono
Ne' tardi secoli, spirano i fremiti
De le genti latine,
Ne le armonie divine.

Deh, se pur premeti desio di piangere,
Mira la patria; grave d'obbrobrio
Il nome italo mira;
E qui piangi e ti adira.

Mira: di barbaro lusso le rigide
Torri si vestono, dove già gl'integri
Petti e le forze e i gravi
Senni crebber de gli avi.

Qui dove i trivii d'urli e domestico
Marte e di fiaccole notturni ardevano
E insanguinò le spade
Gelosa libertade,

Di specchi fulgido ecco e di lampade
È il luogo, e gli ozii molce di un popolo
A cui diè il cielo in sorte
Noia pallida e morte.

Torpe degenere la plebe, e lurida
Ammira gli aurei splendori, ed invida
E vil con mano impronta
I duri Cresi affronta;

Lieta se a' nobili tetti d'obbrobrio
Saliron avide le plebee vergini
A ricomprar le fami
De' genitori infami.

No, di quel valido sangue, che spiriti
Gentili e rapida virtù ne gli animi
De' parenti fluiva,
L'onda ahi più non è viva.

Sacri a la pubblica salute, estranee
Minacce ed impeti di re fiaccarono:
Plebe altera, de' grandi
Prostrâr l'orgoglio e i brandi.

Discese il ferreo baron da l'orride
Castella, e al popol vincente aggiuntosi
Con mano usa al crudele
Cenno trattò le tele.

Da le patrizie magioni al popolo,
Premio d'industria, benigna copia
Calò; di languid'oro
Non custodian tesoro

L'arche difficili. Crebbe a la patria
Larga di pubblici doni e di gloria
Ogni studio più degno
E di mano e d'ingegno.

E pompe sursero di fòri e portici
Ed are a l'unico signor de' liberi.
Né a gli ozi allor de' vili
Servian l'arti civili;

Ma del magnanimo voler, da' semplici
Cuor de gli artefici, sfidando i secoli,
Balzò con franco volo
Su l'attonito suolo

Di Flora il tempio; dove tra i memori
Padri fremerono d'assenso i giovini
A l'ira e a' carmi austeri
Del gran padre Alighieri.


XXXV.

ALLA LIBERTÁ

RILEGGENDO LE OPERE DI VITTORIO ALFIERI

Te non il canto che di tenue vena
Lene a gli orecchi mormora e deriva
Né sottil arte di servil camena
Lusinga, o diva.

Te giova il grido che le turbe assorda
E a l'armi incalza a l'armi in cuor cessanti,
Te le civili su la ferrea corda
Ire sonanti:

E sol tra i casi de la pugna orrendi
E flutti d'aste e fulminose spade
Nel vasto sangue popolar discendi,
O libertade.

Tal t'invocava su la terra attea
Trasibul duro ne' dubbiosi affanni,
E cadean ostie a la cecropia dea
Trenta tiranni:

Tal, sollevato il parricida acciaro,
Teste di regi consecrando a Dite,
Bruto e Virginio un dì ti revocaro
Diva quirite.

Ma quale inermi a te le mani porge
Di tra una plebe che percossa giace
Non del tuo viso l'alma luce ei scorge;
Ma senza pace

Assidua larva tu lo premi: ei vola
Tra le tue pugne co 'l desio veloce,
E muto campo gli è il pensiero e sola
Arme la voce.

Tale il tuo nume nel gran cor portando
Correva Italia l'astigiano acerbo,
E trattò il verso come ferreo brando,
Vate superbo:

Te fra gli avelli sotto il ciel romano
Chiamava; e il nome giù per l'aer cieco
Cupo rendeva a lui dal vaticano
Vertice l'eco.

Tu l'implacato allòr flutto d'Atlante
Rasserenavi de le die pupille:
Aspri deserti sotto le tue piante
Fiorian di ville.

Quindi crollando la corusca lancia
Saltasti in poppa a i legni di Luigi,
E ti scortaro i cavalier di Francia
Dentro Parigi.

Ma noi te in vano al tuo già sacro ostello
Desiderammo, triste itala prole:
Senza te mesto il ciel ed è men bello
Il nostro sole.

Torna, e ti splenda in man l'acciar tremendo
Quale tra i nembi ardente astro Orione;
Deh torna, o dea, co 'l bianco piè premendo
Mitre e corone.


LIBRO III

XXXVI.

Passa la nave mia, sola, tra il pianto
De gli alcion, per l'acqua procellosa:
E la involge e la batte, e mai non posa
De l'onde il tuon, de i folgori lo schianto.

Volgono al lido, ormai perduto, in tanto
Le memorie la faccia lacrimosa,
E vinte le speranze in faticosa
Vista s'abbatton sovra il remo infranto.

Ma dritto su la poppa il genio mio
Guarda il cielo ed il mare, e canta forte
De' venti e de le antenne al cigolio:

-- Voghiam, voghiamo, o disperate scorte,
Al nubiloso porto de l'oblio,
A la scogliera bianca de la morte.


XXXVII.

Che ti giovò su le fallaci carte
Sfiorar gli anni tuoi novi ed il natio
Vigore in su la còte aspra de l'arte,
O troppo a questa amico e a te non pio?

Or qui te da la luce alma diparte
Dura quiete e sempiterno oblio:
O speranze d'onore al vento sparte!
O brama di saper che ti tradio!

Pèra chi al vero inesorato e a' danni
Del vero addisse quella età migliore
Che più pronta risponde a' belli inganni!

Ch'ora non piangerei spento il fulgore
Gaio del tuo sembiante e i candidi anni
E de la cara vita il caro fiore.


XXXVIII.

A F. T.

Due voglie, anzi due furie, entro il cor mio
Seggon, Felice, e a me di me l'impero
E contendono e strappano: desio
Che di bellezza nacque, e vie più altero

Di egregie cose amor. L'una con rio
Fuoco depreda il vinto petto: intero
Seco traggemi l'altra in parte ov'io
Fantasmi evoco e pur gràvami il vero.

Tale, schiavo di me, me ogn'or d'inganno
Nudro volente; e 'l venen suo m'instilla
La cura che diversa entro mi strugge:

E corre intanto il ventunesim'anno,
E il solitario spirito sfavilla,
Ed ombra lenta i dì sterili adugge.


XXXIX.

Poi che mal questa sonnacchiosa etade
Di forti esempi a' vivi suoi provvede,
Posa, o spirito mio; né acquistin fede
Mie fiacche rime a la comun viltade.

Lunge, canti d'amore: altro richiede
Quel novo ardor che tutto entro m'invade:
Io voglio tra rumor d'ire e di spade
Atroci alme rapir d'Alceo co 'l piede.

Risorgerem poeti allor che sia
Scosso il torpore senza fine amaro,
E la patria virtù musa ne fia.

Tremante un re le attee scene miraro
Ne' carmi ancor, ma tinse Eschilo pria
Ne' Medi fuggitivi il greco acciaro.


XL.

GIUSEPPE PARINI

Non io pe 'l verso onde sentia lo stuolo
De l'ignavi potenti il grave morso,
Né pe 'l canto superbo onde in suo corso
Tornasti la civil musa tu solo,

Non io fo vòti. Altera aquila al polo
Troppo ogni emulo ardire hai tu precorso;
Né da le forze mie spero soccorso,
Picciole forze a così largo volo.

Sol vuo' di te la schiva anima, e il retto
Non domabile ingegno, e l'ira e il forte
Spregio pe' vili, e la parola franca.

E voglio, e posso. Tu mi reggi e affranca:
Ché tu sai ben ch'io pe 'l tuo fiero petto
Aspro vivere eleggo e oscura morte.


XLI.

PIETRO METASTASIO

No, non morranno, in fin che tempra umana
Non sia dal vizio o da barbarie doma,
Il tuo nobile Cato e la sovrana
Virtù del prigionier consol di Roma.

Io ben tutti gli allori a la tua chioma,
O degna d'altri giorni alma romana,
Dar voglio e al canto che soave doma
Tutte ree volontadi e il cor risana.

Scuola è la scena or d'ogni cosa ria,
Dove scherza il delitto e dove ardito
L'adulterio in gentil vista passeggia:

E a questi esempi il gener suo nodrito
Vuole e te mastro di virtude oblia
Il secoletto vil che cristianeggia.


XLII.

CARLO GOLDONI

O Terenzio de l'Adria, al cui pennello
Diè Italia serva i vindici colori,
Onde si parve a quanti frutti e fiori
Surga latino ingegno in suol rubello,

Vedi: pur là dove più il retto e 'l bello
Eccitar di sé dee pubblici amori,
Ivi ebra l'arte più di rei furori
Tra sanguinose scede or va in bordello.

Riedi; e i goti ricaccia. A questa putta
Strappa tu il culto oscen, rendi a le sparte
Chiome il tuo lauro che la fe' sí bella.

Ma no; ch'oggi tu biasmo e onor la brutta
Schiera s'avrebbe. Oh per viltà novella
Quanto basso caduta italic'arte!


XLIII.

VITTORIO ALFIERI

O de l'italo agon supremo atleta
Misurator, di questa setta imbelle,
Che straniata il sacro allòr ti svelle,
Che vuol la santa bile irrequieta?

E a qual miri sai tu splendida meta
Ed a che fin drizzato abbian le stelle
Questa età che di ciance e di novelle
Per quanto ingozzi e più e più asseta?

-- Secol ingrato, o figlio; e a viltà giunge,
Chi ben lo guardi senz'amore od ira,
Ogni passo che move per sua via:

E, dove al mal pensar viltà s'aggiunge,
Ivi non sente cor, mente non mira
Quant'alto salga la grandezza mia.


XLIV.

VINCENZO MONTI

Quando fuor de la pronta anima scossa
Dal dio che per le vene a te fluia
T'usciva il canto rapido in sua possa
Come de l'Eridàn l'onda natia,

La sirena immortal, che guarda l'ossa
Di Maro, alzossi per l'equorea via,
E spirò da l'antica urna commossa
Di cetere e d'avene un'armonia.

Al lazio suon pe' i curvi lidi errante
Come tuon rispondea che chiuso romba
Da Ravenna il toscan verso di Dante,

Rispondea di su 'l Po l'epica tromba.
Tacesti; e tacquer le melodi sante,
Tacque di Maro e d'Allighier la tomba.


XLV.

ANCORA VINCENZO MONTI

Te non il sacro verso e non la resa
A' primi fonti e a la natia drittura
Itala poesia, vate, assecura
Da la rea pèste ond'è l'Italia offesa.

Mente che il bene e il male austera pesa
E possente co' tempi si misura
Perché negaro a te culto e natura,
O buona a' vari effetti anima accesa?

Ch'or non udrei de' bordellier Catoni
Pronta pur contro te la facil gola,
Pronti e de' cortigian Bruti i polmoni.

Tu moristi in vecchiezza oscura e sola,
O poeta di Gracco e Mascheroni:
Costoro ingrassa la servil parola.


XLVI.

GIOVAN BATTISTA NICCOLINI

Tempo verrà che questa madre antica
A gli esempli che fûr levi la fronte
E nostre terre per virtù già conte
Tenga una gente di virtude amica.

Or tra' due mari e da Pachino al monte
Sola un'oblivione i petti implìca,
Né questo molle cielo alma nodrica
Che a' suoi padri o con sé mai si raffronte.

Che te laudassim noi, plebi assonnate
Tra un fiottar lento d'incresciosi carmi,
A te saria vergogna ed a noi danno.

O beati i nepoti! in mezzo a l'armi
Te di giorni miglior ben degno vate
Con Dante e con Vittorio invocheranno.


XLVII.

AD ANTONIO GUSSALLI

RACCOGLITORE DEGLI SCRITTI DI PIETRO GIORDANI

Qual tra le ingiurie di Fortuna e i danni
Il dì traesse di conforto nudi,
Pur preparando ne' solinghi studi
Questa Italia novella a liberi anni,

Quel grande cui tremar preti e tiranni
E d'ogni servitù gli eterni drudi
Quand'ei gli ozi turbò de' tristi ludi
Cui diritto è forza e son ragion gl'inganni,

Narrasti, ospite egregio; e i degni accenti
Che pietà di suo zel dritto infiammava,
Più vivi spirti a l'amor santo dierci.

Oh degno ei ben che de le fiacche menti
L'oblio lui segua e de la turba prava
E il feroce oltre al rogo odio de' cherci!


XLVIII.

A TERENZIO MAMIANI

Come basti virtù, perché suprema
Ira e furor d'ingegni e pellegrino
Regno più in fondo il nome italo prema,
A contrastare il fato in cor latino,

Ben mostri or tu: che, mentre ignuda e scema
D'ogni loda e bel pregio a reo cammino
Torce la gente, in su l'etade estrema
Sofo e vate d'Italia e cittadino

Vero pur sorgi, come al secol bello
Quando al valor natio spazio era dato
D'addimostrarsi in generosi esempi.

O d'antica virtù gentile ostello
Petto latin, pur come suoli, al fato
Dura, e di te nostro difetto adempi.


XLIX.

IN SANTA CROCE

O grandi, o nati a le stagion felici
Di questa Italia ch'or suo verno mira,
A cui tanto spiraro i cieli amici
Che in voi fûr pari amor potenza ed ira;

In servitù che pur giova e s'ammira
Cresciuto a' giorni di valor nemici,
In van de gli anni miei contro la dira
Oblivion chieggo da voi gli auspìci.

Al gener vostro ozio è la vita, scherno
Ogni virtude: in questi avelli or vive,
Qui solo, e in van, la patria nostra antiqua:

A i quali io siedo e fremo a le mal vive
Genti imprecando, de l'etade obliqua
Dispregiator, ch'altro non posso, eterno.


L.

A UN CAVALLO

Viva, o prode corsiero! A te la palma,
A te del circo il plaudir fremente!
L'uom che te bruta disse ignobil salma,
Per te lo giuro, a sé adulando ei mènte.

Da quel corpo tuo bello oh come l'alma
Splendeva a i premi ed a le mete ardente!
Or posi; e guardi in tua leggiadra calma
I vinti angli polledri alteramente.

e vinto avresti quei famosi tanto,
Quei che immortali Automedon giugnea
E sferzava il Pelide in ripa a Csanto.

Deh, ché non ferve a te l'arena elea,
E de l'uguale a' dii Pindaro il canto
Ché non ti segue là su l'onda alfea?


LI.

Non vivo io, no. Dura quiete stanca
L'ingegno, e 'l sempre vaneggiar lo irrita
Indarno. Manca ogni ragion di vita,
Se libertade, ahi libertà!, ne manca.

Qui dischiusa dal cor parola franca
È con pavento e con ischerno udita,
E argomento di riso altrui si addita
Uom che per sé del vulgo esce e si affranca.

Or che mi val, se co 'l pensier trascendo
Tra 'l ceto de gli eroi fuor de' neri anni
Te libertà, divina ombra, seguendo?

Vissuto io fossi a sterminar tiranni
Con voi, Roma ed Atene; e non garrendo,
Infermo augel ch'ebbe tarpati i vanni!


LII.

PER I FUNERALI D'UN GIOVANE

Se affetto altro mortal per te si cura,
Spirto gentil cui diamo il rito pio,
Pon dal ciel mente a questa vita oscura
Che già ti piacque e al bel nido natio.

Vedi la patria come sua sventura
Di tua candida vita il fato rio
Piangere e 'l fior de gli anni tuoi cui dura
Preme l'ombra di morte e il freddo oblio.

Quindi ne impetra tu, che a te simìle,
Dritta a l'oprar, modesta a la parola,
Cresca la bella gioventù virile,

E senta come a fatti egregi è scola
Anche una tomba cui pietà civile
E largo pianto popolar consola.


LIII.

Poi che l'itale sorti e la vergogna
Del rio servizio a quale animo altero
O d'ingegno o di mano il pregio agogna
Interrompono inique ogni sentiero,

Peso è la vita insopportabil fero
A chi virtude e libertà pur sogna.
Ond'io quasi de' vili i premi or chero,
Se non che il genio mio tal mi rampogna:

-- Oh, che pensi, che vuoi? spettacol degno
De i numi e di sublimi animi, uom forte
Pugnar più sempre quanto più constretto,

E 'l fato lui d'ogn'ira sua far segno
E lui soffrire ed aspettar la morte
Pur contro il mondo e contro i fati eretto.


LIV.

E ch'io, perché lo schernir tuo m'incalza,
Vinto porga la man, turba molesta?
Non io son fiore a cui brev'aura è infesta,
Elce son io che a' venti indura e s'alza.

Mitrata il crine e cinta i fianchi e scalza
Salmeggi itala musa; o, qual rubesta
Menade oscena a suon di corno desta,
Salti ed ululi pur di balza in balza.

Io, dispregiato e sol, de' padri miei
Io l'urne sante abbraccio; e mi conforta
Riparar qui dove posar vorrei.

Manchi a me pur l'ignuda gloria, morta
Giaccia co 'l corpo la memoria, a' rei
Sia scherno il vuoto nome: oh che m'importa?


LV.

IN UN ALBO

Spirto gentil, che chiedi? Omai l'altero
Sogno vanio per l'aure, e il mondo tace.
Cadde l'ellena dea; del mio pensiero
Madre, l'ellena dea per sempre giace.

Ahi, le pupille che nel sen d'Omero
Arser di poesia cotanta face,
Che de' dardi cissèi tra 'l nugol fero
Ridean superbe ad Eschilo pugnace!

Ah, da la morte l'ultimo suggello
Ebber l'alme pupille! Altri deliro
Abbraccia il corpo ancor, gelido e bello:

Ne i secoli mutati ombra io m'aggiro,
E i novi templi guardo, e al vuoto ostello
De la ionica dea torno e sospiro.


LVI.

A N. F. P.

RISPOSTA

Chi mi rimembra la speranza altera
Che giacque fulminata entro il mio core?
Te ragguardò con mite occhio d'amore
Su 'l nascer tuo Melpomene severa.

Canta; e de gl'inni tuoi l'ala guerriera
A vol segua il risorto italo onore:
Canta; ed infondi a' cor di quel valore
Che gli rapisca a più sublime sfera.

Male co' dì novelli ahi mal s'accorda
Alma che da' sepolcri anche s'ispira,
E a lei risponder la camena è sorda.

Veggo il suo vel fuggente: e a la mia lira
Rompon, amico, omai l'ultima corda
Increscioso dispetto e steril'ira.


LIBRO IV

LVII.

LA SELVA PRIMITIVA

. . . . . . . . . . . . Fuggendo
Per la gran selva de la terra il nato
De la donna ululò già co' leoni
A la preda cruenta; indi, con vitto
Ferin la vita propagando, incerti
Videsi intorno i figli; e lui rendente
De la materia a le vicende eterne
L'immane salma, per lo gran deserto
Dilaceraro i lupi. E tu, febea
Lampade solitaria entro l'immenso
Radiante, non gemere le vite
Chine su l'opra del crescente pane,
Non danze d'imenei vedesti, e madri
Veglianti a studio de la culla, e curvi
De' pii parenti a' funerali i figli.
Ma quindi per lo pian stridea la roggia
Alluvione de' vulcani, intorno
Funereo lume coruscando; e sempre
Caligavan le cime ardue tonanti;
E l'oceàn muggiva; e in su l'azzurra
Alpe salian le nuvole fumanti
Da l'oceàno: paurosamente
Minacciavano al ciel roveri negre
Di vastissima ombra quinci; e a l'ombra
Con lupi urlanti e fere altre la prole
S'accogliea de gli umani. Al picciol uomo
E de la fulva leonessa a i parti
Uno era il nido: al fanciulletto atroce
Era sollazzo provocar li sdegni
De' feri alunni, e le crescenti giube
E l'unghie e l'armi de la bocca orrende
Tentar con man pargoleggiante, e lieto
Via contendere a correre co' pardi.
Ma de l'atro vulcan l'uomo e del fuoco,
De l'instancabil fuoco, egli temea;
E con rozzo stupor guatava il mare
Immenso. Anche fuggìa l'urlo de' venti
Signoreggiante ne' boschi; e del tuono,
Che pe' monti da l'aere ermo rimbomba,
Chiuso ne le spelonche isbigottiva.
E al suon de la procella, e a l'esultante
Per li templi de l'etra ira de' nembi,
E al fulmine stridente, un tremor gelido
Per l'ossa ime gli corse; e s'atterrava,
E gemea. Lieto del superbo sole
Era, e pensoso il verno aere ammirava:
Ma più seduto a lungo in verde zolla
Si compiacea de le verginee stelle.


LVIII.

PROMETEO

Fama è che allor Prometeo, fuggendo
Le sedi auree d'olimpo e de le sfere
L'immortal suono, al nostro mondo errasse
Peregrino divin. Muto correa
Il sole almo e la luce
Per l'infinito oceàno, e del mondo
L'ignota solitudine tacea:
Deserta s'accogliea
La greggia umana a l'ombra
De la gran selva de la terra: ed egli
Seco recava nel fatal cammino
Il rapito dal ciel fuoco divino.
Se non che dura a tergo
Gli si premea la Forza e la ferrata
Necessità: scuotea l'una i legami
De l'adamante eterno, e l'altra i chiovi
Con la imminente mano
Su la fronte stendea del gran Titano:
Mentre il Saturnio ne la rupe infame
Instigava del negro augel la fame.
Ma rinfiammò in Orfeo
L'inestinguibil foco, ed egli mosse
Il duro sasso de le umane menti
Citareggiando e le foreste aurite;
Fin che pittore de l'uman pensiero
Pari a' numi ed al fato alzossi Omero.


LIX.

OMERO

Tra le morti e l'alte
Ruine de gli umani e lo sgomento
Viaggiando la Parca, il ferreo carro
Agitava la Forza; e lei reina
La Vittoria seguia con il compianto
De la terra e del cielo. Al doloroso
Genere allora sovvenian le Muse,
Care tra tutte gl'immortali e pie
Divinità. Correvate la terra
Imaginando e ricordando, e tempio
V'era l'uman pensiero, o pellegrine;
Quando voi nel sonante etra, ne l'ampio
De la luce splendor, ne la procella
Che divina scoscende e i cori prostra,
Prima Omero sentì. La mano ei porse
A la cetra, e lo sguardo al mar di molte
Isole verdi popolato, al cielo
Almo su la beata Eubea raggiante,
E a voi tessali monti esercitati
Dal piè de gl'immortali. Ardea, fremea,
Trasumanato, il giovinetto; e mille
Di numi ombre e d'eroi nel faticato
Petto surgeano a domandargli il canto.

Ed ei pregò, la genitrice Terra
Molto adorando e il Cielo antico; e a' suoi
Voti secondo te chiamò che in alto
Hai sede e regni l'invernal Dodona,
Giove pelasgo. E voi spesso invocando,
Voi già prodotti in più sereno giorno
Eroi figli de' numi e di tiranni
Domatori e di mostri, e quei che forti
Furo e co' forti combatteano, venne
Del re Pelide al tumulo. E sedeva
Inneggiando, e chiamava -- O crollatore
Terribile de l'asta, o d'immortali
Cavalli agitator, mòstrati al vate,
Uom nato de la diva. Un fatal canto,
Ecco, io medito a te; che n'abbian gloria
Ellade e Ftia regale e d'Eaco i figli,
Incremento di Giove. E, deh m'assenta
Questo voto la Parca!, io ne la gloria
Tua de gli elleni il bel nome disperso
Raccoglierò poeta. Odo, la diva
Odo: e di te la grave ira mi canta.
O re Pelide, al tuo poeta mòstrati. --

Disse: E l'udia l'eroe; che da le belle
Isole fortunate, ove i concenti
De' vati ascolta e quanto a' numi è caro
Chi a la patria versò l'anima grande,
Venne; ed in sue divine armi lucente
Isfolgorava deiforme. Un sole
Eran armi e sembiante; e, come stella
Di Giove che in sereno aere declina,
Pioveagli su le spalle ampie il cimiero
Flutto di chiome equine. E Omero il vide
Attonito; né più gli occhi d'Omero
Vider ne i campi d'Argo il dolce sole.

Né se 'n pianse il poeta. Errò mendico
(E avea ne gli occhi la stupenda forma)
Il suol de i forti elleni; e le cittadi,
Opra di numi, ei non vedea; sí tutte
Di lor sedi erompean le achee cittadi
A l'incontro del vate. Un drappelletto
Di garzoni e fanciulle (avevan bianco
Il vestimento e lauri in pugno avvolti
De la mistica lana) intorno al vate
Stringeasi con amor: -- Vieni, o poeta,
A i nostri numi; e i nostri avi ne canta --
E l'adducean per mano. Egli passava:
Gli ondeggiavan di popolo le strade;
E le madri accorreano, i pargoletti
Protendendo al poeta. Orava a' numi
Ne l'entrar de le porte -- O dii paterni
E o dee che avete la cittade in cura,
Deh guardatela molti anni a' nepoti. --
Ne l'àgora sedea, curvo a la terra
Il capo venerando; e parea Giove
Quando ne l'areòpago discende
Da la reggia d'olimpo. Erangli intorno
In su l'aste di lunga ombra appoggiati
I prenci figli de gli eroi: diverso
E d'infanti e di femmine e di vegli
E di chiomati giovinetti un vulgo
Addensato co' gli omeri attendea.
Stavan presenti i patrii numi: il cielo
Patrio rideva in suo diffuso lume
Allegrato del sol: riscintillando
In vista ardea la ionia onda famosa,
E biancheggiavan lunge i traci monti.

Ed Omero cantò. Cantò di un nume
Che in nube argentea chiuso ognora il petto
Assecura de' giusti; e come il divo
Senno di Palla per cotanto mare
Di perigli e di morte al caro amplesso
Radducea di Penelope e a la vista
De la sua cilestrina isola Ulisse.
Anche, su 'l capo a gli empi assidua l'ira
Minacciando ed il fato, a l'alme leggi
De l'umano consorzio e a la vendetta
Le deità d'averno addusse il vate
Proteggitrici forze: onde solenne
La ruina di Troia, e spirò il duolo
Dal tragico terrore e il miserando
Edippo da le attee scene ed Oreste
Esagitaron l'anime cruente.
Ecco! gli immoti e spenti occhi levando
Nel cielo e desiando il sol che vide
Le guerre sotto il sacro Ilio pugnate,
Di tutto il capo alzasi il veglio; e Grecia,
Senza moto e respiro, in lui riguarda.
Ecco! la man su l'apollinea cetera
Rapidissima batte, orride stridono
Le ionie corde, i volti impallidiscono.
E cantò del Tidide a tutta corsa
Disfrenante su' Dardani la biga,
Dritto ei nel mezzo, e mena l'asta in volta:
Caggiono i corpi: infuriano nel sangue
I corridor fumanti: urla la morte
Dietro l'eroe: corron le furie innanzi
Lo spavento, la fuga. E te piantato
In su la nave, o re Telamonìde,
Cantò; come e del gran corpo e de l'asta
Grande e ben ventidue cubiti lunga
Reggei lo sforzo de la pugna, ed eri
Solo tu contro mille: a fronte urlavano,
Accorrenti, irrompenti, risplendenti
D'armi e di faci i Teucri: Ettor crollava
Con man la poppa: sovra èrati Apollo
E l'egida scotea: tonava il padre
Da l'olimpo su' greci: affaticato
A te cadeva il braccio, e ti battea
Alto anelito i fianchi. -- Oh viva, oh viva! --
Gridan l'anime achive asta con asta
Percotendo, e il clamor levan di guerra.
Balza il poeta; e la canizie santa
Scote e la fronte ampia serena, in vista
Nume veracemente. -- Udite, o figli:
La gloria udite de la lega ellena,
Achille ftio sangue di Giove. -- E disse
Come d'un grido (gli splendea dal capo
Di Pallade la luce) isbigottì
Le dardane caterve; impauriti
Ricalcitraro orribili i cavalli,
Ed annitrendo sbaragliati i cocchi
Rapivano a le mura: e qual con Csanto
Fiume di Giove ei contrastasse; e come
Dopo la biga, a le difese mura
Intorno, egli il divin corpo di Ettorre
Tre volte orribilmente istrascicasse
Entro l'iliaca polve. Armi fremendo
E prenci e vulgo gridano il peàna:
Marte spiran gli sguardi: e tutti in cuore
Già calcavan nemici, e a le paterne
Are affiggean le belle armi votate.
Ma pio davan le argee vergini un pianto
Su la morte di Ettorre: e chi a la cara
Patria e a le spose e a' pargoletti imbelli
E a' templi santi il suo sangue fea sacro,
Gioia avea de la morte: onde nel giorno
De le battaglie infuriò tra' Medi
La virtù greca, e il nome Atene e l'ire
Commise del potente Eschilo al canto.


LX.

DANTE

Forti sembianze di novella vita
Circondar la tua cuna,
O re del canto che più alto mira.
Gentil virago ardita,
Quale non vider mai le argive sponde
Né le latine, e d'amor balda e d'ira,
A te venìa la bella
Toscana libertade; e il pargoletto
Già magnanimo petto
Ti confortava de la sua mammella.
Tutta accesa ne' raggi di sua sfera,
Mite insieme ed austera,
Venne la fede; e per un popoloso
Di visioni e d'ombre oscuro lito
La porta ti mostrò de l'infinito.
Gemebondo e pensoso, e pur di rose
Ad altr'aura fiorite il crin splendente,
Con te si stette amore
Lunga stagione; e sí soavi cose
Ti parlò con le labbra vereconde,
E sí dolce ti entrò le vie del core,
Che niuno al par di te sentìo d'amore.

Ma spesso ancor dal meditar solingo
O giovinetto schivo,
Te scuotevan clamor fiero e tumulto
E furor di fratelli
Duellanti ad uccidersi. Stridenti
Per le vicine mura
Civili fiamme udisti; e donne udisti
Ferire a grida il ciel, che l'are e i letti
E i fuochi almi e le cune,
E tutto ciò che bello
Fe' a gli occhi loro il maritale ostello,
Tutto scorgeano in ampio ardore involto
E ruinare in armi esso marito
Da gli amplessi erompendo, e i giovanetti
Armi gridar, sdegno anelando e stragi.
E tu vedesti un furiar di spade
Cercanti a morte i petti,
E nel guerrier che cade
Minacciar viva la bestemmia e l'ira,
E in gran sangue confuse
Bionde teste e canute, e a libertade
Spettacolo di umane ostie esecrate
Dar le furie, e crollar la morte
Le immani torri e le ferrate porte.

Crebbe tra i feri obietti
L'italo ardito spirto;
E, al lungo odio civil pregando fine,
D'amor sí pure imagini e sí nove
Vide e ritrasse a l'ombra
D'un mirto giovinetto
Che le inchina adorando ogni intelletto
Lui dal soave inganno
Destò voce di pianto
Sonando amara su 'l materno fiume.
Ahi, dal turbine infranto
Giacque il bel mirto, e con aperte piume
La colomba d'amore ahi se n'è gita
Impetrando al suo volo aura più pura.
Ei per entro l'oscura
Caligine de' secoli ondeggiante
Rifuggì tra le antiche ombre famose,
Ch'ebbe sé in odio e le presenti cose,
Ed uscì, nel crepuscolo, gigante.

Ed ombra apparve ei stesso; ombra crucciosa,
Che ad una ad una interroga le tombe
Nel deserto, e le abbraccia ad una ad una;
Fin che dinanzi a lui tra le ruine
Barbariche e la polve
Fumò il vigor de le virtù latine,
E tutto quel che una ruina involve
Ferì l'aura silente
Di un grido alto e possente.
Ne l'alta visïone
Divin surse il poeta; e disdegnando
La triste Italia e per mancar d'obietto
Pargoleggiante il gran vigor natio,
Te salutò in desio,
Alma Italia novella,
Una d'armi di leggi e di favella.
A riportar nel vero
Imagine cotanta, egli la vita
Che per lo mar de l'essere si volve
Cercò; d'entro la polve
E dal suon del passato il bene e il male
Trasse, vate fatale: e la sua voce
Come voce di Dio da' sette colli
Tuonò su 'l mondo, e tutti a sé d'intorno
I secoli evocò. Giudice e donno
In lor suo sguardo mise;
Ammirò e pianse, disdegnò e sorrise:
Poi li schierava ne l'eterno canto,
Piacendo pure a sé di poter tanto.

Ma questa umile aiuola
Ove si piange e s'odia,
E questo eterno inganno, e questa vana
Ombra ch'ha nome vita ed è sí bassa,
T'era in dispetto. Poi che il sacro verso
A tutto l'universo
Descrisse fondo, e il buon sofo gentile
Te mise dentro a le secrete cose,
Veder volesti come l'angel vede
Colà dove non è di nebbia velo,
Amar volesti come s'ama in cielo.
Su per le vie d'amore
Quest'umil creatura
Risospingendo innanzi al creatore,
Quetar volesti in quell'eterno vero
Che il grande amor ti dette e il gran pensiero.
Cesse Virgilio a tanto:
E tu deserto e solo
Spirito uman, per entro il gran desio
Sommerso vaneggiavi, e dubitando
Tu disperavi: quando
Su l'angeliche penne
Al tuo dolor sovvenne
Quella ch'è amore e visione e luce
Tra l'intelletto e 'l vero:
Nomarla a me lingua mortal non lice;
Tu la dicesti, amando, Beatrice.
Così di sfera in sfera,
Tutto era melodia quello che udivi,
Tutto quel che vedevi era una luce,
E tutti quanti erano amore i sensi,
E lo spirto ed il verso un'armonia
Simile a quella che là su s'indìa.

Deh, qual parveti allora
Quest'umil patria e qual de le partite
Città la lite (ahi come quella eterna
Che sempre trista fa la valle inferna!),
Quando novellamente
Di ciel disceso ne portavi il canto
Supremo, e tutto avevi il nume in fronte,
Come l'antico che scendea dal monte?
Innanzi a te, splendente
Pur anche nel fulgor del regno santo,
Balenò di vermiglia
Luce il campo feral di Montaperto,
E pe 'l tristo deserto
De le crete maligne
Un fioco suon correa
Come sospir di battaglier morenti;
Cui lontan rispondea
Con un rumor di molto pianto umano
Di Campaldino il maledetto piano.
E tu dal mar toscano,
Rea Meloria, sorgesti;
E la gloria dicesti
De le nefande stragi, e da la nostra
Rabbia infamati i sassi ermi al Tirreno,
E 'l grande equoreo seno
Incestato di sangue, e tristo il bello
Ligure lito di pisani esigli,
E nati solo al fratricidio i figli.


LXI.

BEATRICE

La luminosa testa
Dritta al ciel sorridea,
E il collo si volgea -- roseo fulgente.

La fronte splendiente,
Alta, serena, bella,
E la rosa novella -- del suo viso

E il freschissimo riso
Di pura giovinezza
Mi svegliaron dolcezza -- nova in cuore.

Ma di soave orrore
Tutto mi sbigottiva
De la persona diva -- il portamento.

Ondeggiava co 'l vento
A l'aere mattutina
La vesta cilestrina -- e il bianco velo.

Così donna dal cielo
Mi passava d'avanti
Angelica in sembianti -- e tutta accesa.

La mente mia sospesa
Pur a lei riguardava,
E l'alma quietava -- sospirando.

Poi dissi = “Or come, or quando
Fu la terra sí degna
Che tal d'amore insegna -- in lei si posi?

Che padri avventurosi
Al secol ti donaro?
Che tempi di portaro -- così bella?

Qual più serena stella
Prima forma t'accolse?
Qual divo amor t'avvolse -- del suo lume?

Ben fia l'uman costume
Volto a segno felice
Se di te beatrice -- si ricrea”. =

–= Non donna, io sono idea
Che a l'uomo il ciel propose
Quando de l'alte cose -- ardean gli studi,

E i cuor non anche nudi
Di lor potenza ignita
Combattean con la vita -- aspra e co 'l vero,

E al valido pensiero
E a la balda speranza
Dièr l'armi di costanza -- amor e fede.

Allor d'aerea sede
Tra quei gagliardi io venni,
Ed accesi e sostenni -- le tenzoni,

E stretta a' miei campioni
Fei ne l'amplesso forte
Bella parer la morte -- e la disfatta.

Da i vaghi ingegni tratta
In versi ed in colori
Io vagai tra gli allori -- in riva d'Arno.

Voi mi cercate indarno
Ne' vostri angusti lari.
Non Bice Portinari, -- io son l'idea».


LXII.

AGL'ITALIANI

Divinatrice d'altre genti indaghe
Barbari flutti la britanna prora
Là dove l'indo pelago colora
L'ultime plaghe:

Artici ghiacci a' liberi navili
Vietino indarno i bene invasi mari,
E 'l fero lito d'Orenoco impari
Culti civili:

Frema natura, e i combattuti arcani
Ceda a l'intenta chimica pupilla:
Fulminea voli elettrica scintilla
Per gli oceàni:

Umana industria in divo lume avvolta
Spezzi il mistero e le sognate porte,
E minacciando insultino a la morte
Galvani e Volta:

Che val, se in vizi pallidi feconda
Del lento morbo suo l'età si gode
E colpe antiche di moderna lode
Orna e circonda?

Odi sonare i facili profeti
Con larga bocca e Cristo ed evangelo
Odi rapiti in santo ardor di cielo
Sofi e poeti

Vaticinanti. -- Da l'avita asprezza
Nel mitic'oro il docil tempo riede:
Del lauro antico degnamente erede
La giovinezza

Già de la patria medita l'onore:
Gli anni volanti interroga la speme:
Guatan placati al bello italo seme
Gloria e valore. --

Oh non di forza un secol guasto allieta
Sillogismo di mistica sofìa,
Non clamor di tribuni e non follìa
D'ebro poeta.

Putre fluisce, e ne le sue sorgive
Livida già la vita: da le prime
Cune l'inerzia noi caduche opprime
Genti mal vive.

Quando virtude con fuggente piuma
Sprezza la terra e chiede altro sentiero,
L'ardor del buono e lo splendor del vero
Rado s'alluma,

Languido il cor gli spirti suoi più belli
Ammorza e stagna torbida la mente,
Speme si vela e disdegnosamente
Guarda a gli avelli.

O padri antichi, a' vostri petti degno
Culto eran patria e libertà; verace
Vita agitava l'anima capace
E il forte ingegno.

Pii documenti di civil costume,
Opre gentili, e amore intellettivo
Del buon del vero del decente, e vivo
D'esempi lume

Vedeano i figli ne la sacra etate
De' genitori e ne' pudichi lari;
E sobri uscieno cittadini cari
Ne la cittate.

Crescean nel lieto strepito frequente
De le officine, gioventù severa,
Forte le membra, indomita ed intera
L'alma e la mente.

Durar nel ferro il giovin corpo altiero,
Vegliar le notti gelide, ed immoti
Prostrare a morte libera devoti
Marte straniero,

Fûr loro studi. Poi con man trattando
Con trionfale mano, e lane e sete,
Appesi a la domestica parete
L'asta ed il brando,

A le pie mogli dissero le dure
Fortune de le pugne, ulte le offese
Ne le barbare torme al pian distese,
E le paure

De le regie consorti e gli anelanti
Sogni su 'l fato del signor. Pietose
De i dolori non suoi piangean le spose
Memori pianti.

Ma il figliuoletto, le domate squadre
Seco pensando ed il clamor di guerra,
Con occhio ingordo riguardò da terra
L'armi del padre;

E crebbe fero giovinetto, spene
Cara a la patria e forza di sua gente.
Bello di gioventù, d'armi lucente,
Ei viene, ei viene.

Suonano i campi sotto il gran cavallo
Che altero agita in corso onda di chiome:
Fuggon le schiere e pavide il suo nome
Gridan nel vallo.

Chi fia che tenti quel novel lione?
Morte de la sua vista esce e paura.
Ei passa, e pianta su le vinte mura
Il gonfalone.

Or tòsco a i figli è il prepotente canto
E il docil guizzo de' seguaci moti
Onde vergogna passerà a i nepoti
D'Ellsler il vanto.

Vile ed infame chi annebbiò il pudico
Fior de' tuoi sensi ne' frementi balli,
O giovinetta, e stimolò de' falli
Il germe antico!

E maledetta la procace nota
Ch'alto ti scuote il bel virgineo petto
E che nel foco del segreto affetto
Tinge la gota!

Gioite, o padri; e a l'alma ed a la mente
Galliche fole di peccar mezzane
Esca porgete. Da le carte insane
Surga sapiente,

Surga e proceda l'erudita e bella
Vostra Lucrezia a gl'itali mariti,
Pura accrescendo a i sacri rami aviti
Fronda novella.

Ma non di tal vasello uscia l'antico
Guerrier, che a sciolte redini, feroce,
Premea de l'asta infensa e de la voce
Te, Federico.

O di cor peregrina e di favella
E di vesti e di vizi, o in odio a' numi
E a gli avi ed a la patria, or che presumi,
Stirpe rubella?

Sgombra di te la sacra terra; o in fondo
Putrida giaci dal tuo morbo sfatta,
E i vanti posa e la superbia matta,
Favola al mondo.

Oh, poi ch'avverso è il fato ed a noi giova
L'oblio perenne e i gravi pesi e l'onte,
Rompa su d'oltre mare e d'oltre monte
Barbarie nova!

Frughin de gli avi ne le tombe sante
Con le spade ne' figli insanguinate,
E calpestin le sacre al vento date
Ossa di Dante!


LXIII.

A ENRICO PAZZI

QUANDO SCOLPIVA IL BUSTO DI VITTORIO ALFIERI
E ALTRI D'ALTRI ILLUSTRI UOMINI

Perché sdegno di fati
E l'ozio reo che nostre voglie ha piene
Vie più ti prema, italo sangue, in basso,
Né tu ti volga o guati,
Peregrin tardo e vuoto d'ogni spene,
A le glorie che son sovra il tuo passo;
Non è senza gl'iddii se teco in basso
Luogo ancor non ruina
Ogni antica virtù: ché in te sormonta
Viltade sí ch'ogni speranza è gioco.
Oh, se pur sotto a' gravi pesi e a l'onta
Sfavilla ancor di quel leggiadro foco
Che tutta corse un dí terra latina,
Vostra mercé, petti gentili, dove
Or fa nostro valor l'ultime prove.
E te a la bella schiera
Il fortissimo amor fece consorte
Che oprando hai mostro per sí nove guise.
Deh chi potea la fiera
E grande imago vendicar da morte
Di noi da ignavia rea menti conquise?
Te, certo, te l'ombra divina arrise;
Sí ch'eguale al subietto
Tua virtú si levò. D'amor, d'iroso
Amor vampò su l'alta impresa il core.
Come cred'io che al ciglio lacrimoso
E a l'occhio ardente ed a l'ansar del petto
Si paresse il magnanimo furore!
Ché nulla, o prode, è di tua man la bella
Lode verso il pensier che in te favella

O caro, a cui possente
Spirò pietà di questa madre antica
E a l'opra degna carità suase!
Vedi la nova gente
Come a' parenti suoi fatta è nemica
E deserta di sua luce rimase.
Rea servitú gli antichi spirti rase
Da' cor difformi; e omai
A noi disnaturar fatti siam pronti,
Come turbo d'usanza avvien che spiri.
Ahi scesa giù de' mal vietati monti
Pèste diversa che le menti aggiri;
Per te vita n'è spenta. E nostri guai
Cresce la vana gioventù superba
Che tutti i frutti suoi consuma in erba.

Alto è d'amor consiglio
Ritornare al primier rito civile
Quel che di tanta gloria oggi ci avanza,
Sì che dal turpe esiglio
Ripigli l'arte il suo cammin, gentile
Confortatrice a l'itala speranza.
Deh, per questa valente abbian possanza
Indurre a' cor vergogna
Le imagini de' grandi in cui s'aduna
Quantunque è del buon seme a' tempi nostri.
Ben procurasti contro rea fortuna,
Se le dive sembianze or sí ne mostri,
Ch'esciam del sonno, ove nostr'alma agogna
Disdegnando e fremendo. È degno affetto
Ira, sol ira, in servo italo petto.

Vittorio, e s'or ne pari
Tu qui veracemente e quel tuo sdegno
Che sol del ricordar ne fa sgomenti,
Qual fia l'anima pari
A tanta vista e 'l ben creato ingegno
Che sé da l'ira tempri e da' lamenti?
Lunge, lunge di qua, spiriti lenti!
Ch'ove gli affetti erranti
Fioca dan luce, ed a l'ardir sublime
Che contrasta il destino uom non s'allegra;
Ove contente a la quiete ed ime
Giaccion le menti, e scherno ahi scherno a l'egra
Gioventute è il desio del raro e i pianti
De la virtude e l'ire; ivi alta l'ombra
Di morte incombe e i cuor disfatti ingombra:

Tu 'l sai, che nostra terra,
Errando del tuo sdegno in compagnia,
Del sacro suon di libertade empiesti;
Quando venuto in guerra
Di re, di plebi e di tua stirpe ria
Tanto pe 'l patrio ciel grido mettesti:
Pur si stierono i lenti. Or più funesti.
O spirito cortese,
Ne si girano i fati; e nulla aita
Veggo a mia gente che tra via pur cade.
Dunque sempre smarrita
Fia dal suo corso? e in noi sempre viltade
Suo soverchio userà? fien d'ozio offese
Nostre menti in eterno? e veramente
Persa è la tempra di ciascun valente?

Chi provvede al difetto
Ch'è pur da noi? chi noi d'oblio ravvolti
Di pur rinnovellare or ne fa dono?
Ecco un sacro intelletto
Ascoso dir, te figurando -- I volti
Drizzate al ver: sorga il valor ch'è prono.
Costui che novamente io vi ridòno
Alzi il cor de' sommersi;
E chi muta co 'l vento e nome e lato
Sgridi; e punga i ritrosi, e i lenti scota;
Sì che tornin le menti al proprio stato.
Nostra compianta fama e la rimota
Età ve 'n priega, e questi onde a gli avversi
Chiaro fu come in su gli estremi giorni
L'itala possa sovra sé ritorni. --

Pietoso! E chi d'uguali
Laudi te, o buono, adornerà, che prove
Sì degne mostri onde a ben far c'incore?
Segui: a' tuoi liberali
Studi è fin meraviglia, e di lei muove
Ogni bel senso onde più l'uom s'onore.
Per lei, l'atra quiete e le brevi ore
Terrene e le fatate
Pene indignando, a' vagheggiati inganni
Corre nostr'alma con novelle piume,
E maggior se ne fa. Deh, siegui; e gli anni
Tuoi belli ozio non vinca e rio costume,
Cara nostra speranza; e d'onorate
Opre giovando questa patria, al vile
Sopor contrasti l'ardir tuo gentile.


LXIV.

LAUDA SPIRITUALE

Togliete, umana gente,
Togliete via le porte:
Io veggo a voi venirsene un potente
Che mena gloria ed ha vinto la morte.

Non sorge innanzi a lui suon di paura,
Non compianto di turba dolorosa:
Sì fagli festa tutta la natura
Adorna in vista di novella sposa.
Date il lauro immortal, date la rosa,
Fanciulle, in suo cammino,
Con la bianchezza del fior gelsomino.

Ecco, ei viene il re forte incoronato
Con segno di vittoria in mezzo a nui:
Fuggon dal volto suo morte e peccato,
Movon pace e salute ad un con lui.
Viene il signor che de' ribelli sui
In sé portò la pena,
E ne ricomperò con la sua vena.

Ei ne si fece nel dolor consorte,
E tolse i nostri pesi e tolse l'onte:
Stiè nera intorno a lui l'ombra di morte,
Né volse il padre al chiamar suo la fronte;
Quel dì che rimirando al sacro monte
Uscîr de' sepolcreti
I santi d'Israele ed i profeti.

Egli è l'Isacco del buon tempo antico
Che porge al ferro il bel collo gentile,
E guarda il percussor con volto amico,
E gli si atterra semplice ed umìle:
Né il tien pietà del suo fior giovenile
Né de la fine amara
Né de gli amplessi de la madre Sara.

Ed or la morte sua testimoniando
Qui seco trae la diva umanitade,
Tutto di gioia intorno irradiando
Sì come sole ch'ogni nebbia rade;
E gli alberghi del pianto e le contrade
Ove mortale è il lume
Ei conforta del suo presente nume.

A lui ne' regni de la sua vittoria
Reggia s'estolle d'artificio mira:
Cingelo come nube la sua gloria,
E molto amore angelico lo gira.
Voli dal loco ove il dolor sospira
E vive morte e regna,
Voli il mio canto a lui che sí ne degna:

E gli appresenti il duol de la sua gente
Che dal ben dilungata al ben desia,
Come cerva per sete a rio corrente,
Come augel preso a l'aere natia.
Ei da la spera che più in lui s'indìa
Mandi benigno un raggio
A chi più affanna ed erra in suo viaggio.

Levate, umana gente,
Levate su le voglie
E i petti casti a questo re clemente
Che quale a lui si volga in fede accoglie.


LXV.

ALLA MEMORIA DI D. C.

MORTOSI DI FERRO IL IV NOVEMBRE MDCCCLVII

Te, fratel, piango, e piango de la bruna
Tua giornata l'occaso, che seduto
Ne le stanze paterne al cor più sento.
Lenta sale pe 'l freddo aere la luna,
E largamente il cielo inalba, e il muto
Colle riveste e 'l nudo pian d'argento:
Per li verdi oliveti infuria il vento
Profondo, e intorno ogni animal si tace.
Nel riso e nel tepor di primavera,
Tristo cor mio, qual era
Di questi luoghi la serena pace!
Qual fu a vederlo con ardor virile
Ruotare in breve giro agil destriero
E disserrarlo per l'aperto campo!
Gli occhi suoi mesti allor metteano un lampo,
Correa co' freschi venti il suo pensiero
De l'anno e de l'età nel dolce aprile;
Qualche sguardo il seguia, qualche gentile
Saluto; e forse ombra invocata i rotti
Sogni allietava a le virginee notti.
Lasso! ma in groppa gli sedea la cura
Negra, e stridea la vision di morte
Pur circa lui con fredda ombra volante;
E per i lieti campi a la pianura
E i monti aprici e la foresta forte
Istimolava il destriero anelante.
Poi là seduto ove di fosche piante
Lunga si protendea l'ombra, tacendo
La terra e l'azzurrino aer d'intorno,
Co 'l bello estivo giorno
Che roseo nel ponente iva morendo
Pianse l'error suo vago che a l'etade
L'abbandonava; e l'anima inquieta
Desiando fermò ne le supreme
Paci anzi tempo. O giovinetto, e speme
Niuna a te avanza altro che morte? pièta
De gli anni tuoi da le funeree strade
Non ti richiama? ahi, ahi, né caritade
De' pii parenti ti favella al core,
Né ride al fuggitivo animo amore?

Pietà, speranza, amor, tu con feroce
Voglia dal cuor che mercé pur chiamava
(Deh quanta doglia fu la tua!) schiantasti;
E, atteso e fermo a la funerea voce
Che il disinganno a l'anima ululava
Qual vento a notte per deserti vasti
Refugio a la fatale ira invocasti
Unico il ferro. Oh, a chi nel raggio aurato
Vegga maligne ombre vaganti e vuoto
Il divo cielo e immoto
Su 'l capo faticoso urgere il fato
Che al dolore a la pena al male addice
Lui de la vita incurioso e ignaro,
Qua giù che resta omai? Ne l'innocente
Mano il ferro adattando e lungamente
Meditando amoroso il colpo amaro,
Ti sacrasti a la morte. E di felice
Vita fioria natura, e la pendice
Suonava a' canti e ridea 'l piano al sole,
Quando dicesti l'ultime parole.

-- A me luce non più, non più 'l tuo riso,
O aureo sole. Io violento i fati
Ecco sforzo, e rifuggo ombra sotterra.
O altissima quiete ove diviso
Poserò d'ogni cura, o interminati
Silenzi e pace dopo vana guerra!
Pur se' gioconda a rimirare, o terra!
Pur bello, o sol, sei tu! Natura in festa
Come a rege a te s'orna; e d'un concento
Ineffabile io sento
Spirar le selve, che 'l tuo lume desta
Dolce fulgente. E tu, tu gli amorosi
Congressi illustri e la fraterna clade
Miri ed aiuti, imperturbato, eguale?
Ed or m'arridi in fronte, e su 'l letale
Ferro che a me volente il petto invade
Serenamente il vivo raggio posi.
Lusinghi tu de' primi anni gli ascosi
Ricordi, e di gioir versi il desio
In questo petto morituro mio?

Oh cari tempi ch'io te coruscante
Vedea su 'l mare; e fremea vasta l'onda
Riscintillando, e bianco ardeva il cielo!
Né aspetto d'uomo od opra umana avante
Erami; ed io per entro la profonda
Luce correva a l'alta vista anelo:
Meco era l'error mio che un roseo velo
Induceva a le cose. Oh, chi l'ha tolto
A me? chi m'ha l'infausta vita appreso?
Entro il mio sangue steso
Me in freddo orror per la mia man disciolto
Reduce, o sol, vedrai. Fumi in conspetto
Di lei ch'è al gener nostro empia madrigna
Il sangue giovenil: contaminando
De' miei parenti il viso, esso il nefando
Vivere attesti; e, lunge a la maligna
Forza ch'a le sue man del mondo ha stretto
Il fren, su l'ale de la morte eretto
Fuga lo spirto ove non più si pate
E di man di tiranni a libertate.

Grave durar la vita ed a baldanza
De i duri umani, io non codardo? e quello
Che largo a' bruti e libero propose
Natura, a l'uom chiedere in vano? A stanza
Sì vil chi mi dannò? ... Del mio novello
Tempo il vigile tedio atre angosciose
L'ore misura, e le future cose,
Tanto ch'a imaginar disdegno e tremo,
M'affrontan mute orribilmente in vista.
O lassa anima trista,
O giovinezza mia stanca, morremo
Qual peregrin che va per nova via
Tra genti liete ei mesto, e quelle intorno
Agitan festa, ragguarda egli e passa
Pur dolorando, e meraviglia lassa
Di suoi sembianti, onde al cader del giorno
Di lui sospira alcuna anima pia;
Tale io passo al mio fin, tale a la mia
Meta son giunto. A me chi guarda? a cui
Del mio passar dorrà?... Che monta? Io fui. --

Disse: e geloso custodì nel core,
Nel cor vivente ei custodì la morte,
Come di cara donna il primo detto:
E non domestic'uso e non amore
Ne la deliberata anima forte
Valse l'orma a spiar del diro affetto.
Come, ahi come a te il cor bastò, l'aspetto
Come ti resse, che non tinto e bianco
Del futuro destino e non in tristi
Sembianti ma venisti
Nel conspetto de' tuoi securo e franco?
Certo, fero garzon, certo evitasti
Il riso ne' materni occhi tremante;
E solitario ne la notte inferna
Rifuggìasi il tuo sguardo. Ecco, e l'interna
Larva già fuor di te sorge e d'avante
Sgombra le care viste e i pensier casti.
Ma dal suol che di tue vene bagnasti
La mente aborre, e teco dolorosa
Ne la pace postrema si riposa.

Salve: o che più sereno aer tu miri
Poi che di Lete infuso a le bell'acque
Dal rio dormente i dolci oblii bevesti,
O ver che giovinetta ombra t'aggiri
Tra i magnanimi antichi a cui non spiacque
I giorni ricusare ignavi e mesti,
O che tu vaghi ancor sotto i celesti
Templi solingo ed a me intorno voli
Entro quest'aura che gemendo spira,
Salve, o fratello, e mira
I tristi giorni miei come van soli.
Ben io vivrò; ché a me l'anima avvinta
Di più tenace creta ha la natura,
E officio forse e carità il suade:
Ma, se dal cor profondo unqua mi cade
La dolce imagin tua triste e secura,
Giaccia la vita mia d'infamia cinta.
Sii meco eterno; e nel tuo sangue tinta
Del verso vibrerò l'alta saetta
A far del mondo reo dolce vendetta.


LXVI.

A G. B. NICCOLINI

QUANDO PUBBLICÒ IL Mario

SETT. MDCCCLVIII

Quando l'aspro fratel di Cinegira
Ne la sonante scena
Trasse vestita d'ardue forme l'ira
Che propugnò la libertade ellena,
Marte, che lui spingea tra i dardi avversi
Su gl'incalzati Persi,
Spirò guerra; e fremean guerra, ascoltando.
Quei che operaro in Salamina il brando.

E tu vedesti, o diva Atene, i padri
De' guerrier trionfati
Nel futuro dolor pensosi ed adri
Gemer da' figli deprecando i fati,
Neri presagi ombrar con foschi vanni
Le sale de' tiranni,
E da la mira vision percossa
Svegliar ne l'urne ombre di regi Atossa.

Quinci il sepolto Dario a l'aure uscia
Da la livida sponda,
E nel pianto de' servi il rege udia
La vittoria de' liberi seconda;
Udia ne' passi de la fuga volto
Il figlio imbelle e stolto,
E sonar alto da l'egea marina
Il fragor de la persica ruina.

Deh, che fremito errò di petto in petto
Quando il cacciato Serse,
Gentil città d'Armodio, in tuo conspetto
Narrò gli ancisi prenci e le riverse
Caterve e rotti di sua forza i nervi,
E a gli ululanti servi
Mostrò campate a l'infinita clade
Sol la faretra e sua regal viltade!

Tale a la prole achea gli ozi felici
Di canti Eschilo ornava
Se l'Egeo, detestata onda a' nemici
Altier de' vinti re lui rimandava.
Ma pria tra la falange ispida e vasta
Infuriò con l'asta;
E, come de l'Olimpo aquila o d'Ato
Piomba tra 'l folgorar del cielo, armato

Cotal su i mille e mille egli irrompea
Fuga spargendo e morte;
Fera coppia fraterna, al fianco avea
L'atroce Cinegira e Aminia il forte.
Né de le tibie flebili o del canto
Ozio si fece e vanto;
Ma dal funereo sasso ei Maratone
Ricorda, e tace le febee corone.

Fu pugna e sfida contro i fati ardita,
Fu clamor di trofei
D'Eschilo l'arte; e sgorga da la vita
E refluisce vita a' petti achei.
Non dispetto infingardo o steril ira
Né solitudin dira
Cinge il vate; ma luce ampia ma polve
E frequenza di popolo l'avvolve.

Te, vate nostro, a' rei secoli dato
Quando vita n'è spenta,
Te premea reluttante il grave fato
Giù nel silenzio a l'aer putre e lenta.
Te, non furor di libera coorte
Che consacra a la morte
Con quel de' regi il capo suo, né grido
Di vittoria che introna il patrio lido,

Ma lamentar di giovini cadenti
Su la terra pugnata
E tra i cavalli barbari accorrenti
Cupo fremir di libertà calcata,
Spirava. E in te nostr'ultimo dolore
Alcun vendicatore
S'ebbe, e de gli oppressori al gener vario
Procida minacciasti, Arnaldo e Mario.

Or d'onde, o sacro veglio, è in te possanza
Tal che di vivi sdegni
Armi antiche memorie e la speranza
A noi disfatte e mute anime insegni?
Dunque l'eterna mente ancora è pia
A questa patria mia,
Che pur tu duri in contro al fato ostile
Cantor d'Italia a la stagion servile?

E quando più da peregrino impero
L'alta regina è stretta
Tu affatichi il senile estro e il pensiero
Dietro l'imago de la gran vendetta?
Ben venga Mario che del gener reo
Porta il roman trofeo
E nel cor de' romulei nepoti
Aderge le speranze e infiamma i voti!

Ché, se il figliuol d'Euforion traea
Melpomene pensosa
Ad inneggiar la libertade achea
Sedente su lo scudo e gloriosa,
Non è lode minor, s'io ben riguardo,
Or che l'uso codardo
Fuor de la vita i sacri ingegni serra,
Al men co'l verso guerreggiar la guerra.

Or, poi ch'altro n'è tolto, or guerra indica
Da' teatri la musa;
Gitti il flauto dolente, e la lorica
Stringa, ed a l'aste dia la man già usa.
Quinci altera virtù ne' nuovi petti
Bevano i giovinetti:
Qui la virile età l'ardir prepari,
E che sia patria l'util plebe impari.

E a te, che in vecchie membra alma possente
I tardi ozi ne scuoti,
Qual serba premio, o buon, l'età presente?
Quale i figli crescenti ed i nepoti?
O petto di virtude albergo saldo,
O man che scrisse Arnaldo,
Chi a' miei baci vi porge? una corona
A questo bianco capo oh chi la dona?

Ben io nel gaudio d'un futuro giorno,
Che il ciel mi disasconde,
Veggo popolo molto a un marmo intorno
Incoronarlo di civili fronde:
Quel giorno appo una tomba, italo vate,
Da l'alpi al fin serrate
A le verdi tornando etrusche valli,
Scalpiteranno gl'itali cavalli.


LXVII.

MAGGIO E NOVEMBRE

I.

Ove sei, ché di Delfo in van ti chieggo
A' fatidici lauri e tace Delo,
O re de' canti e de la luce? Eterna
La giovinezza avesti, ed il più bello
Eri de' numi. A te serenatore
De' templi ermi de l'etra ardea la danza
De le titanie vergini, e Anfitrite
Sorridea, dal divin talamo il capo
E le braccia porgendo. A te i mortali
Venian con preci ed inni, o re Agieo
Da la cetera d'oro, allor che Licia
T'accogliea ne' suoi giochi e i patarei
Dumeti impressi dal sereno piede
Fiorian di primavera, e quando in core
Amor prendeati di tuffar la bionda
Chioma, stupor d'Olimpo, entro il bel Csanto
O ver ne la pudica onda castalia.
Allor non lutto innanzi a te; ma danze
E di ninfe e d'egìpani, ma bianche
Fronti di lauro inghirlandate, e vesti
Tirie ondeanti mollemente, e fiori
Che salivano a nembi, e amor soavi
Di verginelle candide: a le valli
De' flauti il suon scendea come un sospiro.


II.

Allor che i fiori e l'onde aveano spirto
E d'amore e di duol, quando nel fiato
De' zefiri esultanti a primavera
Per le brune convalli o ne' mirteti
Di Citera e di Cnido almo aliava
Il divin bacio d'Afrodite; errando
Del lamentoso Egeo lungo la riva,
Amorosa fanciulla, e i cieli e il mare
E il molto fior de' campi lacrimosa
Mirando, e sospirando, invocò Saffo
La deità di Venere; e presente
Annunziò il nume un fremito diffuso
Per la selva odorata. Essa la diva,
Con le dita d'ambrosia, essa da gli occhi
Tergea de la mortal giovine il pianto;
E dolce un canto le imparava: un dolce
Canto che ripetuto, ahi con un molto
Ansar del petto e scintillar de gli occhi,
De i neri occhi d'amore, e un batter forte
De la man su le corde, iscolorava
Le fanciulle di Lesbo; entro l'affisso
Sguardo venendo l'alma e ne' socchiusi
Labbri a libar le voluttà promesse.


III.

Ma or né Cipri a l'egre anime accorre
Su 'l carro tratto da gli augei, né Febo
La cetera del duol raffrenatrice
Agita in vetta a i luminosi colli.
Or solinghe le cure, or la quiete
È inerte e bruna; e sovra i monti e al piano
E nel cielo e ne i cori il verno regna.
O d'april nuvoletta, o ne l'aurora
Luce d'amor che di cotanto riso
L'avvenir m'irraggiavi, io te ripenso,
Fanciulletta d'un tempo. Oh quando i luoghi
Rividi sacri da la tua presenza,
E l'aere spirai che di tua voce
Le molli melodie vibrava a i sensi,
L'aer che dolce che voluttuoso
La persona gentil circonfluia,
Oh, ti rividi ancor! trasfigurata,
Qual l'amor mio ti fece, una suprema
Volta al seno ti strinsi. Ahi, nel mutato
Petto agghiacciar sentii la vita; e insieme
Da le braccia l'imago esil vania
Fusa per l'aure di novembre. Al core
Le man portai; che, quinci dal crescente
Flutto de le memorie assorto e quindi
Fulminato dal ver, battea l'estremo
Irrevocabil palpito d'amore.
Amore, addio, supremo inganno! addio,
O pargoletto mentitor gentile!
In van t'adopri: in questo cuor, ch'io creda,
Né pio né con soave impeto a forza
Rientrerai. Ma cara a me ne gli anni
Sarai memoria, ed onorata; e quando
Dal pensiero evocata al sentimento
La tua larva risorga, un canto, o amore,
Avrò ancora per te. Tal, se la luna
Da le selve appennine aurea si svolve
E su 'l toscano pelago viaggia
Solitaria, rifulgono al chiarore
Bianco le nude arene, e lo sfrondato
Bosco porge i suoi rami e si rallegra:
Guata le scintillanti onde il nocchiero,
Guata la fredda alta quiete, e canta.


LXVIII.

I VOTI

Che prega il vate, il libero
Vate che prega e vuole,
Adorno in veste candida,
Vòlto al nascente sole;
Mentre Gliceria unanime,
Cui le Grazie educaro al mite amor,
Con pia cura a i domestici
Numi il votivo altare ombra di fior?

Che a gli agi suoi rinnovino
Ben cento solchi i duri
Giovenchi? o ver che fervida
Vendemmia gli maturi
Dove tepe la ligure
Maremma e verna il suo paterno mar
E dove gli avi improvvidi
Né un avel di famiglia a lui lasciâr?

Altri il crociato orgoglio
Tra un aureo vulgo estolla,
E i vili ozi gli prosperi
La mal redata zolla.
A me sorrida un tenue
Lare e l'italo bacco empia il bicchier
Tra gli amici che liberi
Assentano fremendo al carme auster.

Non io vorrò che facili
Pieghin le orecchie altiere
I grandi al carezzevole
Suon de le mie preghiere:
Non io libare a l'aureo
Pluto da la febea tazza vorrò.
E non le muse indocili
Fra i lusingati prandi inebrierò.

Prego: de' serti lirici
Se me la patria Serra
Degno produsse; e il fremito
Del mar tòsco, e la terra
Dove in gran solitudine
L'ombra di Populonia e il nome sta,
Aspro garzone crebbero
Me tra i fantasmi de l'antica età;

Prego: a la sacra Italia
Suoni il mio carme, e fiero
Surga ne l'ira, vindice
Del romuleo pensiero.
Che se ne' campi memori
De la clade che ancora ulta non fu
Scenda a pugnar con impeto
D'odio maturo l'itala virtù,

In me, non nato a molcere
Con serva man la lira,
Di tua grand'alma un'aura
Possente Alceo, respira;
Allora che su la ferrea
Corda battendo con la man viril
Guatavi altero immobile
De l'aste il flutto e il vasto impeto ostil.

Rapia la nota eolia
La giovenil coorte,
Che de le spose immemore
Ruinava a la morte.
E tu cantavi l'isole
De' beati ove il forte Ercol migrò
E dove aspetta Tèseo
Chi la cara a la patria alma versò.

Ma il fior del sangue ellenico
A te d'intorno ardenti
Co' peàna premevano
I tiranni fuggenti;
Poi ne la danza pirrica
Scudo a scudo battendo e piè con piè
Incoronâr le patere
Sopra la morte di Mirsilo re.

O sacri tempi! o liberi
Vati correnti in guerra,
Poi tra le danze e i calici
Cantanti su la terra
Salvata! Oggi una pallida
Nube di tedio e terra e ciel coprì,
E il carme è voce inutile
E il vate un'ombra de gli antichi dì.

Dunque posiam. Ma l'ozio
Muto non sia né vile;
Sì trascorrendo liberi
Per la stagion servile
Mediteremo i cantici
De le memori glorie e del disir,
Come già i padri italici,
Li sdegni e i ferri esercitando, udîr.

Salve, o mia patria! Ed arida
Stia questa lingua viva,
Se di te mai dimentico
Son dov'io pensi o scriva.
Tuo, santa patria, è l'impeto
Che sale a i carmi da l'acceso cor
E l'acre tedio e il fulgido
Telo de l'ira e l'elegia d'amor.

Folle censore e stupido
Cantor di vecchie fole
Me chiami pure, o Italia,
La tua diversa prole:
Adulator di trepidi
Liberti e vili sofi io non sarò.
Che se nel reo servizio
Precipitar co 'l vulgo anch'io dovrò,

Su 'l corpo mio Gliceria
Sparga le care chiome
E ne le insonni tenebre
Chiami il mio vuoto nome,
Immaturo compongami
Del fratel generoso entro l'avel
La madre, ed orbo vagoli
Il padre infermo entro il deserto ostel.


LIBRO V

LXIX.

A UN POETA DI MONTAGNA

Nascesti dentro d'un secchion da latte,
E a scrivere imparasti in una bòtte,
Accordando le rime irte ed astratte
A lo scoppiar de le castagne cotte.

A quelle rime strampalate e matte
Sentironsi a bociare asini e bòtte,
Le secchie vomitaron lor ricotte,
E i tegami pugnar con le pignatte.

Allora crocitando un solreutte,
Salisti in Pindo pien di boria il petto;
Ma Febo ti legnò come un Margutte.

Tu montato in arcion d'un somaretto,
Ti preparavi a le future lutte,
Con un orso scudiero al fianco stretto:

E d'uno scaldaletto
Difeso, urtasti di tutta baldanza,
Ma il ciuco ti buttò senza creanza,

-- Per legge d'eguaglianza,
Ragliandoti su 'l muso a ritornelli,
Bestie non portan bestie; e siam fratelli.


LXX.

A UN GEOMETRA

Dimmi, triangoluzzo mio squadrato,
Che al mondo se' de gli animali rari,
Furono prima i ciuchi o i somari?
E quel tuo capo è un circolo o un quadrato?

Anco: il cervel, se fior te n'è restato,
È isoscelo o scaleno o ha lati pari?
Se' tu l'ambasciador de' calendari,
O un parallelogrammo battezzato?

Buona gente, i' vi prego che pigliate
Questo bambolon mio ch'ha di molt'anni
E che 'l mettete a nanna e lo cullate.

Tenetel chiuso, ch'egli è un barbagianni,
E non fa che sciupar vie lastricate,
Mangiar de 'l pane e consumar de' panni

E quando fuor d'affanni
Averà messo il dente del giudizio,
Fate sonare a la ragion l'uffizio.

O bello sposalizio
Che vogliam fare come più non s'usa,
Accoppiandolo a monna Ipotenusa!

E' mi dice la Musa
Che di questi rettangoli appaiati
Nasceran di be' circoli quadrati.


LXXI.

A UN FILOSOFO

Se sant'Antonio vi mantenga sano
E vi rischiari l'antropologia
Né spengan le zanzare il lume a mano
Che vi diè il Pestalozza in cortesia,

Seguite adagio adagio e piano piano,
Caro Mirtillo mio, per questa via:
Ché l'individualismo è luterano
E il volere esser noi pedanteria.

Voi sbancate i copisti e gli scrivani,
Voi vendete il sistema a bariglioni,
Con la modestia pia de' ciarlatani.

Venitela a vedere, o berrettoni,
L'opera bella de le vostre mani
Fatta ad imagin de'

Oh i leggiadri sermoni!
Oh la filosofia vaghetta e pura
Che larga a un tempo e stretta è di natura!

Se la mano vi dura
E se Dio vi mantien sane le dita,
Mirtillo mio, farem buona riuscita.

Siete una calamita
Che v'attirate i pezzi badiali,
Come faceva Orfeo de gli animali.

Pria che la ruota cali,
Pigliate i raggi, e con novel vigore
Scappateci ad un tratto professore.

Ché noi v'amiam di cuore,
E, pur che vi leviate quattro passi,
Vi mandiamo anche ne' paesi bassi.


LXXII.

AI POETI

O arcadi e romantici fratelli
Ne la castroneria che insiem vi lega,
Deh finite, per dio, la trista bega,
E sturate il forame de' cervelli.

Del vostro pianto crescono i ruscelli
E i fiumi e i laghi sí che l'alpe annega,
E stanco è il Gusto a batter chiavistelli
A questa vostra misera bottega.

Sentite in confidenza: i lepri e i ghiri
Son lepri e ghiri, e non son mai leoni:
Né Byron si rimpasta co' delirî,

Né Shakespeare si rifà co' farfalloni,
Né si fabbrica Schiller co' sospiri,
Né Cristi e sagrestie fanno il Manzoni.

Dopo tanti sermoni,
O baironiani, o cristiani, o ebrei,
Ed o voi che credete ne gli dèi,

Lasciate i piagnistei;
E, se più al mondo non avete spene,
Fatevi un po' il servizio d'Origene.


LXXIII.

ANCORA AI POETI

O arcadi e romantici fratelli
D'impertinenza e di castroneria,
Che è questo che vi frulla in fantasia
D'impecorirci i cuori ed i cervelli?

Ladre tantaferate e ritornelli
Udimmo troppe, e fu gran cortesia
Non cacciarvi a pedate dietrovia,
Buffoni, arcibuffoni e menestrelli.

Buffoni, arcibuffoni, ite in bordello
Con vostri salmi e vostre trenodie
Che d'eretico sanno e di monello.

Voi bestemmiate come genti pie
Co 'l reliquario in man, sotto un mantello
Accoppiando le Taide e le Marie.

Dite le litanie,
E non ci ricantate tuttavia
Con stil francioso e di tedescheria

Italia Italia mia!
Or via, che Dante e Niccolò s'inchina
A questa bella Italia parigina!

Andate a la berlina,
Ché de le nostre terre italiane
Stalle faceste di bestiacce strane.

Torrei prima il gran cane
Od un muftì, che niun de' vostri eroi,
O i magni italianon che siete voi.

Più perniciosi a noi
Che un battaglion tra svizzeri e croati
E trentamila inquisitori frati.

Patriotti garbati,
Smettete la commedia e gli spauracchi,
Ché noi siam tutti stracchi stracchi stracchi.

Armatevi di tacchi,
Mettete a le zampette i barbacani:
Voi siete tutti nani nani nani.

E per noi italiani,
Se non trovate un diavol che v'impenni,
Voi siete tutti menni menni menni.

Se pria non vi scotenni
Cotesta frega di far poesia,
Ne le risaie de la Lombardia

Vogliam farvi una stia:
E vi ci chiuderemo; e per becchime
V'inghebbieremo de le vostre rime.

Se vi salvi il lattime,
Vi daremo a mangiar de le ballate,
Dicendovi -- buon prò, oche infreddate.

Ma deh non ci scappate,
Che vi racchiapperemo; e i refrattari
Saran costretti di compor lunari

In versi settenari
Al lume de la luna e per la bruna
Notte sopra la tacita laguna.

Così farem fortuna,
Battendo la gran cassa a i vostri ardori
Lo Spettatore di tutti i colori.


LXXIV.

A SCUSA D'UN FRANCESISMO
SCAPPATO NEL PRECEDENTE SONETTO

Deh balii de la lingua, affeddiddio
Che questo a punto a punto è il vostro caso,
E voi potete pur darmi di naso
Menando gran rumor del fatto mio.

Guardivi sant'Anton come rimaso
D'un franciosismo al laccio or son anch'io;
E cancher venga al nemico di Dio
Che pria la rima n'arrecò in Parnaso.

Ch'io veggio correr fuora a gran baldanza,
Pur me ammiccando con un risolino,
Molti linguisti di molta importanza.

E' vanno per consigli a l'Ugolino.
Deh, statevi per Dio: de l'ignoranza
Da per me mi chiarisco, e mi v'inchino.

Or dal vostro cammino
Qua voltatevi voi primi, aramei
Che studiate la lingua in su' caldei,

Indiani e giudei;
E voi che fate i be' vocabolisti,
E voi che rivedete i trecentisti

Né mai gli avete visti,
E voi che siete sí gran barbassori
Che pur al Gello appuntate gli errori.

Tra i magni espositori
Non manchi qui con le scritture sue
Quel ser cotal che fu suocero al bue.

Ora stommi in tra due,
S'anche m'abbia a chiamar quelli autoroni
Che il Leopardi affastellano e il Manzoni

Per entro i lor prosoni.
Deh sì, venite tutti a schiere a schiere:
Che al corpo non vuo' dir del miserere

Mi farete piacere.
Ne le brache mettetemi le mani,
Levate via la pulce, e andate sani.


LXXV.

ALLA MUSA ODIERNISSIMA

O monna tu, ch'io non so qual tu sia
Tanto se' in vista difformata e strana,
Monna Clio, monna Ascrea, monna befana,
O monna dal malan che Dio ti dia;

A la croce di Dio, tu se' . . . . . .
Se t'acconci a chi vuole in su la via;
E se ne mente la mitologia
Che giurò su 'l candor di tua sottana.

Poi che ti presti ogni or mattina e sera
A tutte voglie d'ogni razza ingordi,
Tornata di regina in paltoniera;

O sciagurata, fa che ti ricordi
A chi tu fosti ed a chi se' mogliera
Onde per te mi fremono i precordi.

Anime al ben concordi
Già ti levâr d'ogni bel pregio in cima:
Or ti preme ciascun, ciascun t'adima.

Non si può dir per rima
Quanto sia cattivello e piccolino
Questo gentame ch'ora t'ha domìno.

Qual vien ruttando il vino
Sovra il tuo petto; e l'anima imbriaca
Urla l'idillio, a la canzon si placa.

Qui Geremia s'indraca,
E i cembali sonando in colombaia
Vagisce la bestemmia, il pianto abbaia.

Un altro, ecco, si sdraia
Nel verso sciolto, e ci fa un voltolone,
Come somaro dentro il polverone.

Ben venga il bambolone
Che non iscompagnato ancor dal latte
Bela, e pur con Melpomene combatte.

In van la si dibatte
Tra le man del piccino: ella n'è stracca,
Ed ei rimesta le tragedie a macca.

Il cherichetto insacca
Pur nel tuo tempio, e sa di sagrestia
E di moccoli spenti e d'eresia:

Con lirica bugia
Gorgoglia l'inno, e struggesi di frega
Meditando il bordello e la bottega.

Ve' colui che si frega
A l'epopeia, e, perché troppo è lunga,
La concia sì, che al suo termine giunga.

Come par che la punga
E la cincischi sí che il sangue spicci!
E poi le aggiusta il parruccone a ricci.

Al fin par che s'appicci
Il divin corpo al corpicciuol digiuno,
E camminando son né due né uno.

Iscarmigliato e bruno
Or si fa oltre Gracco: il pecorino
Cuor gli tentenna come il personcino.

Da l'eliso divino
Inchìnati a costui, nonno Catone,
Ch'ha sempre in bocca una rivoluzione.

È un repubblicanone
Che ingozza prima la sua libbra buona
Di mazzinianissima prosona,

Poi tuona e tuona e tuona.
A udir quell'omaccino armipotente
Isbigottisce la povera gente,

E dice: Veramente
Cotestui studia per le invenzioni
Di verseggiar le bombarde e i cannoni.

In decasillaboni
Egli squaderna co' profeti santi
Ippopotami neri e lionfanti,

E sòpravi giganti
Che vanno armati di monti e montagne
A imbottar nebbia per queste campagne:

Ma poi grugnisce e piagne,
Quando tornato al cristian suo core
S'inginocchia davanti al confessore.

Deh quanto è gran dolore
Del tristo punto ove condotta sei
O tòsca Musa già cara a gli dèi,

Da questi uomini rei
Che ad ogni voglia lor buona o non buona
Adoperano pur la tua persona.

Non che rotta la zona,
E' t'han diserto i più gentili arredi;
E infantocciata come tu ti vedi

Dal capo in fino a' piedi,
Ti mandano accattando in su 'l sentiero.
Ov'è il regal paludamento altiero?

Or se' tu da dovero
Che a l'universo descrivesti fondo
E fosti prima poesia del mondo?

Or è questo il giocondo
E nobil sen dal quale a' dì più tardi
Si nutriva il gran cor del Leopardi?

Ah no! tu di codardi
Se' madre e sposa: or ti conosco io tutta,
O barattiera svergognata putta.

Deh via, sudicia e brutta,
Lascia, via, di menar tanto fracasso;
Uccella a' barbagianni e statti in chiasso.


LXXVI.

PIETRO FANFANI E LE POSTILLE

Pietro Fanfani sta ne le postille
E le postille stanno nel Fanfani:
In principio eran sole le postille,
Poi le postille fecero il Fanfani.

E il Fanfani in persona è le postille,
Le postille in idea sono il Fanfani:
Dice Fanfani chi dice postille,
Dice postille chi dice Fanfani.

Oh nuova cosa veder le postille
Vestir panni e mangiar con il Fanfani,
E il Fanfani pensar con le postille.

Tutte le cose che pensa il Fanfani
O vuole o ama o fa le son postille;
E le postille son sempre il Fanfani.

E poi che nel Fanfani
Sono cervello e cuore una postilla,
L'angel custode può spassarsi in villa.


LXXVII.

IL BURCHIELLO AI LINGUAIOLI

Il soldan de gli accenti a solatìo
Giva su per Mugnone in vista fiera.
Calandrin gli dicea con buona cera
-- Togli de l'elitropia o fratel mio. --

Cantavan l'oche per quella riviera
-- Pìgliati i paperotti, e va' con Dio; --
Gli gridavano i ghiozzi -- Addio, addio; --
Sconcordavano i granchi a schiera a schiera.

Grande onor fecegli anche un pappagallo
Declinando proverbi a le brigate
Di sur un arbor di sambuco giallo;

Ed in rime dicea sue pappolate,
Ma le Grazie gli diedero un cavallo,
E con le gazzere ei si rese frate.

Di farfalle acconciate
Con passerotti lessi a gran diletto
Una bertuccia faceva il guazzetto;

E di quel suo brodetto
Diè bere più d'un tratto al Nardi e al Gello,
Che per ammenda tolsergli il cappello

Dove tenea 'l cervello,
E diederlo a beccare a un fottivento
Che dopo il pasto si morì di stento.

Or ecco un gran concento
Di fischi e bussi pauroso e strano:
E' vengono i pedanti a mano a mano,

E pigliano il soldano
E la bertuccia e il pappagal babbione,
E spettacol ne fanno entro un gabbione

Dicendo a le persone
-- O buona gente, venite a la mostra:
Questi son gli occhi de la lingua nostra.


LXXVIII.

A MESSERINO

S'indraca Messerin contro i pedanti,
E del Monti pur ciancia e del Manzoni.
O pecoraio, contastù i caproni?
Quanti piedi han dirieto e corna avanti?

Questo servo de' servi de' menanti,
Spazzaturaio di composizioni,
Piglia del campo anch'egli e fa sermoni
E se l'allaccia tra' filosofanti.

Or credi tu de la viltà natia
Esserti scosso per tuffar le mani
Dentro l'inchiostro d'una stamperia?

Va fíccati in un cesso o datti a' cani!
Che se tu me 'l chiedessi in cortesia
Pur ginocchione e con giunte le mani

Per lo dio de' cristiani,
Un calcio mio non ti vorrei donare;
E ragghia a posta tua se sai ragghiare.

Gli scudi che vuoi dare
Per far dietro a' pedanti il buggerio,
Se fussin soldi loderesti Iddio.

Omicciattolo mio,
Vuoi farla da leone, e se' asinello
Che mai si vide il più pulito e bello.

Mettetegli il corbello,
Carcatelo di ciarpe e di letame.
E co 'l baston cacciategli la fame.


LXXIX.

SUR UN CANONICO
CHE LESSE UN DISCORSO DI PEDAGOGIA

Udite, udite il molto reverendo
Sopra la educazione de' figliuoli.
E' si vuol, quand'han messo i lattaiuoli,
Cominciar la grammatica esponendo;

E quelli duri a modo di piuoli
Tutta in latin la vengan ripetendo.
Che se il ragazzo dice -- I' non la intendo --
È da pigliar de' nerbi o ver querciuoli,

E picchiatelo forte a nodo a nodo,
E chiamatel furfante a tutto pasto:
A un bisogno e' c'è il martello e 'l chiodo

Per crocifigger chi l'avesse guasto.
Questo de l'insegnar cristiano è il modo,
Così il fanciullo vien saputo e casto.

Ma deh prima il catasto
Insegnategli e la negromanzia,
Che non la storia e la geografia.

Questa è una cosa ria,
Questo è razionalismo di quel fino:
Contentisi il ragazzo al Bellarmino.

Oh che giovin divino,
Se di nulla mai chieggavi ragione
Credendo tutto a tutte le persone!

E creda anche al forcone
Di Satanasso o ver di Lucibello
E a le penne de l'agnol Gabriello,

Ed a lo spiritello
O spiritelli che vengano a schiere
E al diavolo grande e a le versiere,

E che le fattucchiere
Piglin forme di cagne o vuoi di gatte,
Ed a tant'altre autorità sí fatte.

E così si combatte
In prò de' nostri italiani vecchi,
E questo è il classicismo di parecchi!

O bonzi, o mozzorecchi,
Voi fiorirete i ginnasi e' licei
D'Ecceomi e Barabbi e Zebedei.


LXXX.

A BAMBOLONE

Se Dio ti guardi sino a befania
Cosí fresco grassoccio e badiale
Ed a risparmio del pepe e del sale
Da viver anche sant'Anton ti dia,

Or dinne, Bambolone, in cortesia: --
Se' tu tozzone o porti piviale?
Ha' tu studiato di negromanzia?
Se turcimanno o cozzone o sensale?

Quando tu mostri fuora il tuo faccione
E l'occhio picciolino e quella fessa
Che tieni ov'han la bocca le persone,

Dice la gente -- È egli ora da messa?
Ècci oggi a la Nunziata processione?
Ehi, sagrestano! -- Ma quel dir poi cessa,

Quando una filatessa
Sciogli di citazion greche e latine
Che l'una e l'altra si pigliano al crine.

A fé tu trinci fine
L'apotegma ed il còlon e lo scolio,
E l'assioma bei come il rosolio.

Sembri il padre Nizolio
Che fe' di Marco Tullio anatomia,
Sembri il sultan de la filologia.

Ma di filosofia
Tu n'hai piene le sacca anzi le balle:
Dice la gente che mai non ti falle.

N'hai sempre in su le spalle,
E ne le brache, e fin dentro gli usatti,
E la vendi al minuto e la baratti.

Oh come sono matti,
I' volevo dir nuovi e peregrini,
I discorsi che fai, grandi e piccini!

Gli arabi ed i latini,
I francesi i geloni ed i caldei
E irochesi e ottentotti ed aramesi,

Gli svizzeri e gli ebrei,
Ed i russi ed i prussi ed i borussi,
Gli hai su le dita come tu ci fussi.

Anche hai giocato a frussi
Con Salomone, e facei l'altalena
Con Licurgo quand'ei murava Atena.

O testona ripiena
D'ogni gran cosa, grossa soda e dura,
Tu hai gran naturale, anzi natura.

Or dài or dài la stura
A quelle fantasie che in rime hai mésse
Ma risprangale prima ove son fesse.

Calate le brachesse,
Baraballo t'aspetta in Elicona
E vuol dare al tuo crin la sua corona.

E tutto il monte suona
-- O Bambolone, vienne a questo stallo
Vienne tra il Carafulla e Baraballo!


LXXXI.

AL BEATO GIOVANNI DELLA PACE

Oggimai che ritornati
Son di moda e stinchi ed ossa
E né pure gl'impiccati
Son sicuri ne la fossa.
Anche a voi la quiete spiace,
Fra' Giovanni de la Pace?

Bravo Nanni, la persona
Rilevata su bel bello,
Una santa pedatona
Voi menaste ne l'avello
E gridaste -- Giuraddio!
S'è così, ci sono anch'io.

Su da bravo, Cosimino!
Vieni fuor con la brigata,
Metti in pronto il baldacchino,
E facciam la passeggiata.
Era tanto che giacevo!
È tornato il medio evo! --

Ma da vero ma da vero
Che n'avete ogni ragione.
Ecco il presule ed il clero
A menarvi in processione,
O soldato trionfante
De la chiesa militante.

Viva pur Sandro Manzoni!
Quant'è mai che s'arrabatta
Co' filosofi nebbioni
E gli storici a ciabatta!
Acqua santa a piena mano,
Tutto il secolo è cristiano.

Libertà, indipendenza,
Paganissima utopia,
Offendevan la decenza
De la santa teoria,
Ora stabile e fondata
Su l'Europa incantenata.

Guarda mo', Castelbriante!
La tua Francia torna a Dio:
Bonaparte è novo Atlante
A la cattedra di Pio:
Fan da Svizzeri a San Piero
I nipoti di Voltèro.

Cristo par sia riportato
Fra' bagagli di Radeschi,
Su l'altare appuntellato
Da le picche de' Tedeschi.
Convertì la baionetta
Questa terra maledetta.

Questa terra, che del nostro
Sangue e pianto è molle ancora,
Brontolando un paternostro
Su zappiamo a la buon'ora,
Per trovare ossa di santi
O di frati zoccolanti.

Vo' veder, se l'uso tiene,
Cristianissima Parigi,
Abbigliar le Maddalene
Col soggòlo e in panni bigi.
E mandarle a' lupanari
Con in petto i reliquari.

Che t'importa, o razza sfatta,
De le cose di quaggiù?
Un fermaglio a la cravatta
Con un osso di Gesù:
Una formola d'usura
Con un passo di Scrittura!

Che volete? Il cristianesimo
È un romanzo che fa chiasso.
Ci scordammo del battesimo,
Ma cantiamo co 'l compasso
Com'un'aria di Lucia
Paternostro e avemaria.

Presto dunque il reliquario,
E ben venga il santo novo!
Tra i compari del lunario
Anche lui si faccia il covo,
Avvocato e servigiale
De la pace universale.

Bel vedervi, fra' Giovanni,
Ritto ritto su l'altare,
E briachi per gli scanni
I canonici a russare,
E i devoti bisbiglianti
Di cambiali e di contanti.

E le belle penitenti
Mentre cantan litania
Affittar nuovi serventi
Per l'entrata in sagrestia,
Invocando la Madonna
Quando s'alzano la gonna.


LIBRO VI

LXXXII.

A VITTORIO EMANUELE

Non perché da' Sabaudi a la marina
Stendi lo scettro de l'avito impero
Su 'l Po regale e il Tanaro sonante,
Non perché a' cenni tuoi leva ed inchina
Il subalpino popolo guerriero
I liberi vessilli a te davante;
Ma perché figlio amante
Sei de l'antica madre in ch'io mi vanto,
Al tuo conspetto il pianto
Di costei reco, onde su l'empie squadre
Già spronasti il cavallo a lato al padre.

Or drizza il guardo a valle; or vedi, o sire!
Dal pian cui parte l'Eridàno e irriga,
De la grande cacciata glorioso;
Da le lagune ove il sublime ardire
La strana signoria lenta castiga,
Onde il vecchio leon freme cruccioso;
Dal prisco suol famoso
Che sacro ha il nome più fra Tebro ed Arno;
E dove Liri e Sarno
A bestial tirannia nutron le prede;
Tende le braccia Italia e pietà chiede.

Pietà de la gran donna, o cavaliere,
O rege, o figlio! In forza altrui condotta
Questa dolente il suo Cesare chiama:
Mille stannole attorno ombre severe
Ch'han la persona di più punte rotta
E guardan pure in te con muta brama.
Cotal già sovra Rama
Suonava il pianto di Rachel cattiva,
Che de' suoi figli priva,
Poi ch'eran morti, non volea conforto,
In fin che Giuda a la vendetta è sorto.

Attendi, attendi. Un suon profondo e lento
Rimugge da la valle e in alto spira,
E si fa tuono che a l'intorno romba:
Par d'acque molte rumoreggiamento,
Quando il bosco al vicin nembo s'adira
E il vorticoso Borea giù piomba.
Non è rumor di tomba:
E l'itala minaccia a lo straniero;
È fremito guerriero,
Che cresce co 'l romor de le procelle,
E i regi e l'armi avvolve e i troni svelle;

È grido atroce di calcata plebe
Che sorge contro la ragion de' forti
E il pio sdegno e le sante ire raguna.
A te commette le paterne glebe,
A te le invendicate ossa de' morti,
A te i vòti e la speme e la fortuna,
E i talami e la cuna
De' pargoletti e il maternal desio.
Deh non cresca, per dio,
Sotto i regni di barbaro soldato
Chi d'italica donna italo è nato!

Corser due lustri che cruenta al suolo
Gittando Alberto l'itala corona
Ostia sé diede a l'ira alta de' cieli:
Rinnovellata a la ragion del duolo
Crebbe altra gente, e l'itala matrona
Incanutì sotto i funerei veli.
Deh! quante volte aneli
Dal cozio sasso protendean lo sguardo
Su 'l bel terren lombardo
Gli esuli mesti, rimembrando in vano
La pia casa paterna e il dolce piano.

E presso al freddo focolar sedea
Barbaro sgherro, a i padri antichi in faccia
Esplorando il dolor l'ansia la speme:
Vile! e a le mute lacrime irridea;
E co 'l ferro e lo scherno e la minaccia,
Volerne servi e miseri e partiti!
Vile!, l'ira premea che inerme freme.
Or non più, no! l'estreme
Battaglie affretta la lombarda prole:
Scintillan sotto il sole
Gli sdegni aperti, e gran fiamma seconda:
Torma servile i nostri campi inonda.

Io chieggo a te, de l'itale contrade
Cavaliere scettrato, a te, buon figlio
Del magnanimo Alberto: Or che più cessi?
Che fanno in val di Po straniere spade?
E quei che Alberto spinsero a l'esiglio
E a morte inconsolata, or non son essi?
Tra oppressori ed oppressi
Non pace mai, ma guerra guerra guerra!
Armi freme la terra,
Armi i vecchi le donne i figli imbelli,
Armi i templi e le case, armi gli avelli.

Ma pace a te, se nieghi a' tuoi scettrati,
Stirpe d'Arminio, il braccio, e te consigli
Con libertà che i popoli compose.
Noi non venimmo del bel Reno armati
A predar le riviere, e non i figli
Strappammo al sen de le tue bionde spose:
A l'ire generose
Sorride Libertà, l'auspice dea
Che su' Franchi spingea
La negra caccia del tuo fier Lutzove
Con suon d'inni e di spade a l'ardue prove.

Pietà vi stringa, o popoli, del duolo
Ond'è sacra l'Italia e de la speme
Che le disperse sue genti nutrica:
Non invidiate che su 'l patrio suolo,
Suolo che ancor del nostro sangue geme,
Raccolga i figli suoi la madre antica.
Deh, per dio, non si dica
Quest'obbrobrio di voi! de' nostri danni
Patteggiar co' tiranni!
Iloti nuovi, su pe' i nostri liti,
Volerne servi e miseri e partiti!

Attendete e guardate. Il petto è questo
D'Italia madre, il petto ove attingeste
Onda di civiltà perenne e viva:
L'han macchiato Neroni empi d'incesto,
L'han solcato di piaghe disoneste,
E il sangue ne gittar per ogni riva.
Egra giace e mal viva
La Cibele d'Europa: a lei d'intorno
Nel novissimo giorno
Stanno i suoi figli, in contro a' fati oscuri
Di feroce pietà forti e securi.

Che se nel cor de' popoli consorti
Misericordia tace, e se ne' petti
De' regi stagna un vergognoso oblio;
Pe 'l supremo desir de' nostro morti,
Pe 'l tacito pregar de' pargoletti,
O Italiani, o fratelli, o popol mio,
Leviam! Giudichi Iddio
La causa nostra a l'universo in faccia.
E tu, Vittorio, abbraccia
L'italica bandiera; il serto scaglia
Oltre Po, nel terren de la battaglia.

Loco è in Superga, ov'ha misteri orrendi
La religion di morte, ove aspettando
Posan gli atavi re dentro gli avelli:
Ivi sali, o signor: la spada prendi
Di Carlo Alberto, e i tuoi padri evocando
Batti lo scudo de gli Emmanuelli.
A quel suon, di novelli
Fremiti il ciel d'Italia ecco rintrona:
Come nube che tuona
E nel rovente folgore scoscende,
Lungo clamor da l'alpi al mar si stende

Vapor di sangue orribilmente sale
Da la fatal Novara, e l'aere invade
E fuma atro su 'l mare e vela il monte:
Ecco rabbia di guerra alta immortale,
E strepitar d'incalzantisi spade,
E a le vendette correre Piemonte.
Di rossa luce a fronte
Già balena Custoza, e già la guerra
Corre l'insubre terra;
E rompono feroci ogni dimora
Brescia e Milano a gridar mora mora.

Ma il leon di San Marco alza la testa,
E sovra i mille orribile s'avventa
Tra ferro e fuoco ed urla alte e terrore
Tende l'orecchio, il suon de la tempesta
Napoli attinge; e già spezzò la lenta
Sbarra e le strambe del regal timore.
Generoso furore
Rapisce i prodi ne l'usate prove:
De l'ire antiche e nove
Freme Palermo, e da la sua ruina
Anche si drizza a battagliar Messina.

Né tu men presto la codarda soma,
Che ne la strage tua fu colorita,
Da te scuoti, o roman popolo altero.
Al folgorar de la novella Roma
Già tra l'are s'appiatta il re levita,
E ritorna a trattar suo ministero.
Tu fra tanto il cimiero
Vesti di Marte e la visiera abbassi,
E la grand'asta squassi,
Ricercando il nemico. E teco agogna
Tedesco sangue la viril Bologna.

E noi da gl'indignati ozi riscuote
Noi tòsche genti la funerea voce
De i giovinetti in Montanara estinti:
Quando ne le frequenti aule percuote,
Taccion le danze, e in un desio feroce
Taccion i vòlti di pallor dipinti.
O campi insubri tinti
Del sangue nostro, ancor nel dì supremo,
Ancor vi rivedremo,
D'ostie ferite e trionfali canti
A placar le fraterne ombre aspettanti.

Su dunque, suona a l'ultima riscossa,
Re sabaudo, le trombe, e giù dal monte
Saettando la guerra urta il destriero.
Sia del tuo brando il lampo e la percossa
Lume di vita a la gran donna in fronte
E fulmine di Dio su lo straniero.
Vantator menzognero,
De l'armi nostre e de la gran vendetta
Senta l'orrenda stretta;
E troppo Italia ancor gli sembri forte,
(Quando ne' lurchi avventerà la morte).

In van le scuri e le catene, in vano
Fûr gli ozi e l'ombre di cocolle e stole:
Sangue latin viltà, no, non impara.
O plebi di Bologna e di Milano,
A cui per libertà morir non duole!
O Goito, o Pastrengo, o Montanara!
O cara Brescia, o cara
Venezia! deh come tu suoni acerba
A chi le piaghe serba
Da Mestre e vide per la notte nera
Tutta affocata folgorar Marghèra.

Itali esempi fûr nel Barberino
Venti giovani contro a Francia tutta
Rotti di venti colpi il seno invitto:
Son nostri Rosaroll, il Morosino,
Poerio, e su la mole arsa e distrutta
Medici solo orribilmente dritto.
Questo è roman conflitto,
Pugnato sempre e rinnovato ognora,
Fin che il Cimbro dimora
Nel suol di Mario, e dal carinzio chiostro
Alarico depreda il terren nostro.

Ma te Mario novel le ocnee convalli
Ben sentiranno, ne l'immensa clade
Splendenti al cielo di più bei colori.
Esultano al passar de' tuoi cavalli
L'ossa fraterne, e a le vittrici spade
Il suolo di Maron cresce gli allori.
Consacra i rei signori
Debite inferie a i santi aviti Mani:
Poi su' colli italiani
L'ombra adora di Roma, e il voto augusto
Sciogli di Giulio e di Traian su 'l busto.


LXXXIII.

IN SANTA CROCE

XXIX MAGGIO MDCCCLIX

Non carmi, non ghirlande, e non concento
Di salmi a l'ombre de' guerrier si doni:
Grecia ne l'aspro dì de le tenzoni
Diede inferie di sangue a' suoi trecento.

O sacre a morte libere legioni,
Qui venite di morte al monumento;
Qui profferite orribil giuramento,
Che nel conspetto del Signor risuoni.

Pe 'l sangue de gli eroi, pe' franti petti
De' vegliardi, pe 'l duol che si disserra
Da le piaghe di madri e pargoletti,

Guerra a' tedeschi, immensa eterna guerra,
Tanto che niun rivegga i patrii tetti
E tomba a tutti sia l'itala terra.


LXXXIV.

ANCHE IN SANTA CROCE

Quali, quali, al tuonar de' feri accenti
Forme s'accalcan per lo sacro loco?
Assistete, spirate, ecco io v'invoco.
O martiri, o fraterne ombre frementi:

E voi caduti sotto il ferro e il foco,
E voi sotto il flagel schiacciati e spenti,
E voi sparte dal piombo anime ardenti,
E qual de' ceppi uscì livido e fioco.

Conturbate i sepolcri, scoperchiate
Le tombe, e nel conspetto de l'Eterno
Il pianto e il sangue del martirio alzate.

Non ci lasciar di Satana in governo:
L'inferno contro te l'armi ha levate,
Ed in Austria, Signor, tutto è l'inferno.


LXXXV.

GLI AUSTRIACI IN PIEMONTE

E molti e armati e di ferocia immani
Batter misere plebi; e ne le vite
Ne gli aver ne l'onor mettere ardite
Le sanguinose e non pugnanti mani;

Poi, le prede gittando in van rapite,
Al suon de l'armi prime i noti piani
Ricercar ne la fuga, ed a i lontani
Presidii erger le fronti sbigottite:

Queste son le tue pugne, oste gagliarda.
Ma intatta sorge la regal Torino,
E su 'l libero mar Genova guarda.

Riparate, predoni, oltre Ticino;
Ché ben per la fremente aura lombarda
Vi segue il ferro ed il valor latino.


LXXXVI.

A GIUSEPPE GARIBALDI

Te là di Roma su i fumanti spaldi
Alte sorgendo ne la notte oscura
Plaudian pugnante per l'eterne mura
L'ombre de' Curzi e Deci, o Garibaldi.

A te de' petti giovanili e baldi
Sfrenar l'impeto è gioia; a te ventura
Percuoter cento i mille, e la sicura
Morte con amorosi animi saldi

Abbracciar là sopra il nemico estinto.
Or tu primo a spezzar nostre ritorte
Corri, sol del tuo nome armato e cinto.

Vola tra i gaudi del periglio, o forte:
Vegga il mondo che mai non fosti vinto
Né le virtù romane anco son morte.


LXXXVII.

MONTEBELLO

Non son, barbaro, qui le inermi genti
Onde facil menar preda ti giova:
Son forti mille; e teco ardono in prova
Mescersi, d'armi e di valor potenti.

Son gl'itali manipoli irrompenti:
Questo che fere, il ferro è de la nova
Gente; e com'e' s'incarna avido e trova
L'austriache vite, barbaro, tu il senti.

Superbo, e sotto la sabauda lancia
Curvi le spalle? prode, e sí restio
Se' tu dal ferro e così pronto a ciancia?

T'urta e rompe e disperde, o ladron rio,
Italia a fronte; e a tergo poi ti lancia
La vendetta de' popoli e di Dio.


LXXXVIII.

PALESTRO

Italia, il gregge de' tuoi re, straniero
Gregge, tra le tedesche aste dormia;
O ver dal sonno pauroso il fero
Tendea gli artigli e sangue tuo sitìa.

Or tessi il roman lauro al re guerriero
Che per te pugna e vince, Italia mia:
Ei milite ei tribuno ei condottiero
Ti sorse, ed egli imperador ti sia.

Competitore oh qual sarà che scenda,
Quando tu del guerriero al crin sudato
Ponendo, o Italia, la cesarea benda

Dirai: Su le paterne ossa giurato
Questi ha il mio scampo: questi entro l'orrenda
Pugna il suo sangue, italo sangue, ha dato?


LXXXIX.

MAGENTA

Gli attese al passo; poi di nubi avvolta
Del Cesare cirnèo l'ombra si mosse,
E disgombrando la caligin folta
Alzò il grido di guerra, e il ciel si scosse.

Già fuoco e ferro orribilmente in volta
Percuote i lurchi come turbin fosse,
E l'antica vendetta entro la molta
Strage l'ali battea torbide e rosse.

Or via, cessate l'inegual conflitto;
Ché quinci servitù feroce e muta,
Quindi pugna de i popoli il diritto.

Cade l'austriaca sorte: e te saluta,
Pian di Magenta, il civil mondo afflitto:
L'avversaria del bene è in te caduta.


LC.

MODENA E BOLOGNA

Al suon che lieto pe 'l diverso lido
Empie tra i monti e 'l mar l'italo seno,
Sgombra, o straniero, i tuoi presidî: infido
Sotto i barbari piè crolla il terreno.

Or chi pria leverà d'Italia il grido
Spezzando il vario, infame, antico freno?
Di martiri e d'eroi famoso nido,
Voi Modena e Bologna. Oh al dì sereno

Di libertà cresciute anime altere
Tra i ceppi sanguinanti e gli egri esigli
E gli orrendi martòri in prigion nere,

Voi ne' tedeschi e ne' papali artigli
Chi più mai renderà, poi che un volere
Raccoglie al fin de la gran madre i figli?


XCI.

SAN MARTINO

Chi del German di doppia oste maggiore
Là il barbarico nembo urta e sostiene?
Chi sovra mucchi di morenti muore
Sorriso in volto di letizia e spene?

Qual d'ira e di virtù divin furore
Su quel colle a le prove ultime viene?
Chi ricaccia il gagliardo assalitore,
E terribil lo folgora a le schiene?

Sei tu, sei tu, latin sangue gentile,
Che ne i pugnati campi su la doma
Austria risorgi in tua ragion civile,

Ed a l'Europa gridi -- Oh, chi mi noma
Servo mai più? fine a l'oltraggio vile!
Rendimi il serto di mia madre Roma.


XCII.

PER LE STRAGI DI PERUGIA

Non più di frodi la codarda rabbia
Pasce Roma nefanda in suo bordello;
Sangue sitisce, e con enfiate labbia
A' cattolici lupi apre il cancello;

E gli sfrena su i popoli, e la sabbia
Intinge di lascivia e di macello:
E perché il mondo più temenza n'abbia,
Capitano dà Cristo al reo drappello;

Cristo di libertade insegnatore;
Cristo che a Pietro fe' ripor la spada,
Che uccider non vuol, perdona e muore

Fulmina, Dio, la micidial masnada;
E l'adultera antica e il peccatore
Ne l'inferno onde uscì per sempre cada.


XCIII.

ALLA CROCE DI SAVOIA

Già levata ne gli spaldi
De' castelli subalpini,
Tra le selve ardue de' pini
Ondeggianti a l'aquilon;

De' marchesi austeri e baldi
Fiammeggiante ne i brocchieri,
Quando i ferrei cavalieri
Ruinaro a la tenzon;

Come bella, o argentea Croce,
Splendi a gli occhi e arridi a' cuori
Su 'l palagio de' Priori
Ne la libera città;

Dove il secolo feroce,
Posta giù l'ùnnica asprezza,
Rivestì di gentilezza
La romana libertà.

Vero è ben: qui non sorgesti
A l'omaggio de i vassalli,
Giù squillando per le valli
L'alto cenno del signor;

Né tornei ferir vedesti
Né d'amore adunar corti,
E lodar le belle e i forti
Non udisti il trovator.

Una plebe di potenti
Qui giurossi al franco stato.
E il barone spodestato
Si raccolse tra gli artier,

Quando sursero portenti
Da le sete e da le lane,
E le logge popolane
Vider Giano e l'Alighier.

Ma la luce che a te intorno
Novamente arde e sfavilla,
E da Susa fino a Scilla
Trae le nostre anime a te,

Nel desio d'un più bel giorno
Che, cessati i duri esigli,
La gran madre unisca i figli
Sotto il nome del tuo re;

Quella luce tra gli orrori
De l'Italica sventura.
Queste tombe e queste mura
A i dì novi la serbâr.

Tal su l'urne de' maggiori
A la tarda etrusca prole
La favilla alma del sole
I sepolcri tramandar.

Qui Alighier nel santo petto
Accogliendo pria quel raggio
Te nel triplice viaggio,
Nova Italia, ricercò:

Tutto in faccia al gran concetto
Gli fremeva il cor presago,
E, di Roma l'alta imago
Abbracciando, poetò.

Qui ne l'aule del senato,
Qui de' rei nel duro ostello,
Doloroso Machiavello
Maturava il pio desir;

E a la forza ed al peccato,
Che l'Italia egra tenea,
Chiese aiuto a l'alta idea
E de l'opera l'ardir.

Infelice! a la sua gente
Si volgeva altro destino,
E il buon Decio fiorentino
La grand'anima gittò.

Ma il pensier del sapiente
Ed il sangue del guerriero
Sovra il capo a lo straniero
Le viventi ire eternò.

E fu primo Burlamacchi,
Dato a morte e pur non vinto,
Contro il fato e Carlo Quinto
Il futuro ad attestar.

Poi da' petti inermi e fiacchi
Rifuggì l'altera idea
Fra le tombe, onde solea
Ferri e ceppi rallegrar.

Or, desio de' nostri morti,
De' viventi amore e gioia,
Bianca Croce di Savoia,
Tu sorridi al nostro ciel.

Gloria a te, da che a' tuoi forti
Filiberto aprì la strada
E su i barbari la spada
Levò Carlo Emmanuel!

Gloria a te quando nel grido
D'una plebe combattente
Tra le patrie armi lucente
Te un magnanimo portò;

E per tutto il nostro lido
Fin de l'Adria a la riviera
Da le torri di Peschiera
La vittoria folgorò!

Sacra a noi, te non avvolse
La ruina di Novara:
Più terribile e più cara
Di memorie e di virtù,

Risorgesti: e un rege accolse
In te l'italo destino,
Quando ruppe a San Martino
La stagion di servitù.

Chi l'ha detto che fremente
Di terrore e di corruccio
Qui su'l popol di Ferruccio
Un d'Asburgo regnerà?

Su, stringetevi, o possente
Gioventù de le legioni!
Su risorgi, o Pier Capponi;
Tocca i bronzi a libertà!

Il combattere fia gioia.
Fia 'l morire a noi vittoria:
Pugnerà con noi la gloria
Ed il nome de i maggior.

E tu, Croce di Savoia,
Tu fra l'armi e su le mura
Spargerai fuga e paura
In tra i barbari signor.

Noi, progenie non indegna
Di magnanimi maggiori,
Noi con l'armi e con i cuori
Ci aduniamo intorno a te.

Dio ti salvi, o cara insegna,
Nostro amore e nostra gioia!
Bianca Croce di Savoia,
Dio ti salvi! e salvi il re!


VARIANTE CANTATA

DELLA
CROCE DI SAVOIA

Come bella, o argentea Croce,
Splendi a gli occhi e arridi a' cuori
Su 'l palagio de' Priori
Ne la libera città;

Dove il secolo feroce,
Posta giù l'ùnnica asprezza,
Rivestì di gentilezza
La romana libertà!

A Vittorio i nostri carmi
Ne le piazze popolose,
De' figliuoli e de le spose
Consacriamo a lui l'amor,

E lo strepito de l'armi
E il furor de' fieri petti
E la folgor de i moschetti
In presenza a gli oppressor.

Il combattere fia gioia,
Fia 'l morire a noi vittoria:
Pugnerà con noi la gloria
Ed il nome de i maggior.

Ma te, o Croce di Savoia,
Altra gente invoca e aspetta:
A chiamar la gran vendetta
Sorge un grido di dolor.

È Venezia. In riva al mare
Siede, guarda, e al ciel si duole;
E conforto aver non vuole,
Perché figli più non ha.

Oh qua l'armi! e a fulminare
Torna, o re, nel tuo sentiero:
Dove regna lo straniero,
Va', ti mostra, e fuggirà.

Noi, progenie non indegna
Di magnanimi maggiori,
Noi con l'armi e con i cuori
Ci aduniamo intorno a te.

Dio ti salvi, o cara insegna,
Nostro amore e nostra gioia!
Bianca Croce di Savoia,
Dio ti salvi! e salvi il re!


XCIV.

BRINDISI

Evoe, Lieo: tu gli animi
Apri, e la speme accendi.
Evoe, Lieo: ne' calici
Fuma, gorgoglia e splendi.

Tenti le noie assidue
Co' vin d'ogni terreno
E l'irrompente nausea
Freni con l'acre Reno

Chi ne le cene pallide
Cambia le genti e merca
E da i traditi popoli
Oro ed infamia cerca:

A noi conforti l'anime
Pur contro a' fati pronte
Il vin de' colli italici
Ove regnò Tarconte.

Un morbo rio cui niegano
Le mie camene il nome
Pasce le membra d'Ampelo
E le fiorenti chiome,

Ed ei sparso di rigido
Livor la bella faccia
Al tuo gran nume supplica
Pur con le inferme braccia.

In van: tu sdegni, o Libero,
Che a' temperati ardori
La dolce per i barbari
De l'uve ambra s'indori;

E, quando il marte austriaco
Su' colli tuoi gavazza
Tu sfrondi i lieti pampini,
Tu frangi al suol la tazza.

Nato al sorriso limpido
De le pelasghe forme,
I tetri ceffi abomini
E le ferine torme.

Deh risorridi e fausto
A la vendemmia scendi;
Ne i bicchier nostri, o Libero,
Fuma, gorgoglia e splendi.

Ne' clivi ove più prospero
Il sacro arbusto alligna
Non più stranier quadrupede
Ti pesterà la vigna,

Non de l'ottobre splendido
Tra i balli e le canzoni
Mescerà lituo retico
I detestati suoni.

Il re teban di vincoli
Strinse il tuo fido stuolo:
Tu sorridesti, e inutili
Caddero i ferri al suolo.

D'estranei re da' vincoli
Italia or si sprigiona:
Ridi, o vendemmia; o Libero.
Il mio bicchier corona.

Torni a' suoi covi squallidi
La sconsolata prole.
Di putri nebbie fumiga
La terra in odio al sole

Che a pena guarda i poveri
Campi e i maligni colli,
Cui nieghi, o padre Libero,
L'onor de' tuoi rampolli.

Ivi i giacenti spiriti
D'amari succhi asperga
E oblii ne' sonni torbidi
De' suoi signor la verga.

A noi tu serbi i vividi
Estri e gli ardor giocondi,
Di civil fiamma, o Libero,
A noi tu i cuori inondi;

Tu caro a lui che a' teutoni
Indisse i lunghi affanni
Ed al cantor lesbiaco
Spavento de' tiranni.


XCV.

LA SCOMUNICA

I fratelli a i fratelli e i padri a i figli
Chiama Roma inimici, e guerra chiede:
Per vive membra crepitar le tede,
Dritti fra nere croci acciar vermigli,

E fra stupri ed oltraggi e sangue e prede
Rapito Cristo da rabbiosi artigli
Delitti a consacrar, con erti cigli
Di tra l'orgie dormite ella già vede.

Già leva il maggior prete in bianche stole
Tra la sua turba imbestiata e scempia
La man benedicente e le parole.

Nefandi! oh venga dì che sangue v'empia
Sì che v'affoghi, e sia quel che a voi còle
Da i sen forati e da la rotta tempia.


XCVI.

VOCE DEI PRETI

E tu pur di viltà scuola e d'inganni
Fosti, o asil de gli oppressi, o tempio; quando,
I fratelli e la patria e Dio negando,
L'interprete di Dio stiè co' tiranni.

Empio! e al ciel si lodò de i nostri affanni,
E benedisse a gli oppressori il brando,
E a l'inferno sacrò qual sé levando
Scotea dal capo del servaggio i danni.

Pronta a gl'imperi d'ogni vil feroce
E a le lusinghe del vietato acquisto,
A Dio mentì de' vati suoi la voce.

Ahi giorno sovra gli altri infame e tristo,
Quando vessil di servitù la Croce
E campion di tiranni apparve Cristo!


XCVII.

VOCE DI DIO

Voce di Dio nel tempio or ecco tuona,
-- Una sembianza avete ed un linguaggio
Vostra è la patria che il Signor vi dona,
Cui ride il ciel co 'l più soave raggio.

Via del sire stranier l'armato oltraggio!
Via la favella che diversa suona!
Cui vi strappa de' vostri avi il retaggio,
Cui vi tragge a servir, Dio non perdona:

Dio che accende la vita entro gli avelli,
Che incontro a gli oppressor tra' folgor vola
In compagnia de' Macabei fratelli. --

Salve, o voce di Dio! questa è parola
Che di te scende, e a' secoli novelli
Rende lo spirto del Savonarola.


XCVIII.

IL PLEBISCITO

Leva le tende, e stimola
La fuga de i cavalli;
Torna a le pigre valli
Che il verno scolorò!

Via! su le torri italiche
L'antico astro s'accende:
Leva, o stranier, le tende!
Il regno tuo cessò.

Amor de' nostri martiri,
De i savi e de' poeti,
Da i santi sepolcreti
La nuova Italia uscì:

Uscì fiera viragine
De le battaglie al suono,
E la procella e 'l tuono
Su 'l capo a lei ruggì

Levò lo sguardo; e splendida
Su 'l combattuto lido
Mandò a' suoi figli un grido
Tra l'alpe infida e 'l mar:

E di ridesti popoli
Fremon le valli e i monti,
E su l'erette fronti
Un sangue e un'alma appar.

Già più non grava i liberi
Viltà di cor le ciglia:
Siam l'itala famiglia
Cui Roma il segno diè.

La forte Emilia abbracciasi
A la gentil Toscana:
Legnano e Gavinana
Sola una patria or è.

L'ombre de' padri sorgono
Raggianti in su gli avelli;
Il sangue de' fratelli
Da' campi al ciel fumò.

Già sotto il piede austriaco
Bolle lampeggia e splende:
Leva, o stranier, le tende:
Il regno tuo cessò.

Piena di fati un'aura
Da i roman colli move;
La terra e il ciel commove
Le tombe e le città.

In ogni zolla, o barbaro,
A te una pugna attesta
L'antica età ridesta
Con la novella età.

Vedi: Crescenzio i tumuli
Schiude nel suol latino:
Levato in piè Arduino
Incalza il nuovo Otton.

T'incalza il sasso ligure,
La siciliana squilla;
E Procida e Balilla
Accende la tenzon.

Ecco: Ferruccio l'impeto
Ed il furor prepara:
Lo stuol di Montanara
Intorno a lui si tien.

Ne i dolor lunghi pallido
Ecco il sabaudo Alberto:
Gittato ha il manto e 'l serto,
Sol con la spada ei vien.

A' varchi infidi cacciano
I tuoi destrieri aneli
Poerio con Mameli,
Manara e Rossarol.

Nero vestiti affrontano
Te del Carroccio i forti.
Tornano i nostri morti.
Tornano a' rai del sol.

De i vecchi e nuovi martiri
La voce si diffonde,
E un grido sol risponde
L'Arno la Dora il Po.

Sola una mente e un'anima
Tutta l'Italia accende:
Leva, o stranier, le tende!
Il regno tuo cessò.

E tu, signor de' liberi,
Re de l'Italia armato,
Ne i voti del senato,
Ne 'l grido popolar,

Sorgi, Vittorio: a l'ultima
Gloria de' regi ascendi;
Al popolo distendi
La mano, ed a l'acciar.

T'accomandiamo i pubblici
Diritti e le fortune,
I talami e le cune,
Le tombe de' maggior:

Vieni, invocato gaudio
A i tardi occhi de' padri,
Speranza de le madri,
De' baldi figli amor.

Vieni: anche i nostri parvoli
A fausti dì crescenti
Te con i dubbi accenti
Chiaman d'Italia re.

Assai splendesti folgore
Ne' sanguinosi campi,
E de la pugna i lampi
Arsero intorno a te.

Vieni, guerriero e principe,
Tra 'l popolar desio:
Teco è l'Italia e Dio:
Chi contro te starà?

Dio pose te segnacolo
D'una fatal vendetta:
Teco l'Italia affretta
A la promessa età.

Straniero, a le tue vergini
Gran lutto allor sovrasta:
Gitta la spada e l'asta:
Dio gli oppressor fiaccò.

De la vendetta il fulmine
Già l'ale infiamma, e scende.
Leva, o stranier, le tende!
Il regno tuo cessò.


XCIX.

IN SANTA CROCE

IV GIUGNO MDCCCLX

Tre fra i ricordi e le speranze e il pianto
Sorgon forme nel tempio alte e stupende.
Verde quasi smeraldo ha l'una il manto,
E il ferro e l'occhio verso l'Adria intende.

Come folgor di Dio, da l'altro canto
Roggio il secondo cherubin s'accende;
E mira in val di Tebro; e al pastor santo
Tremano in capo per terror le bende.

Bianco siccome neve in alpi intatte
È il terzo; e va, de' martiri colomba,
Dove Sicilia bella arde e combatte.

Ma grida a gli altri: Allor che la mia tromba
Canti le tirannesche ire disfatte,
Tu su Venezia e tu su Roma piomba.


C.

SICILIA E LA RIVOLUZIONE

Da le vette de l'Etna fumanti
Ben ti levi, o facella di guerra:
Su le tombe de' vecchi giganti
Come bella e terribil sei tu!
Oh trasvola! per l'itala terra
Corri, ed empi d'incendio ogni lido!
Uno il core, uno il patto, uno il grido:
Né stranier, né oppressori mai più!

O seduti negli aulici scanni,
A che i patti mentite e la pace?
Solo è pace tra servi e tiranni
Quando morte la lite finì:
Ma il nemico su 'l campo non giace,
Né lasciò da la man sanguinante
La catena che in saldo adamante
Nel silenzio de' secoli ordì.

Come il turpe avvoltoio ripara,
Franto l'ali dal turbine, al covo,
E ne l'ozio inquieto prepara
Pur gli artigli la fame ed il vol;
Vergognando il pericolo novo
La barbarie le forze rintégra
Ne le insidie la speme rallegra,
Pria gli spirti quindi occupa il suol.

Or su via! Fin che il truce signore
Tien sol una de l'itale glebe
E de' regi custodi il terrore
Tra l'Italia e l'Italia interpon;
Fin che d'Austria e Boemia la plebe
Si disseta di Mincio e di Brenta,
E il cavallo de l'Istro s'avventa
Dove al passo confini non son;

Fino al dì, verdi retiche vette,
Che su voi splenda l'asta latina;
Sciagurato chi pace promette,
Chi la mano a la spada non ha!
Presto in armi! l'antica rapina
Ceda innanzi a l'eterno diritto!
Come Amazzoni ardenti al conflitto,
Presto in armi le cento città!

O Milan, la tua pingue pianura
Crebbe pur de le bianche lor ossa,
E i destrieri sferzò la paura
Quando inerme il tuo popol ruggì:
O Milano, a la terza riscossa
Gitta l'ultima sfida, e t'affretta;
Il drappel de la morte t'aspetta,
Ch'è risorto al novissimo dì.

Bello il sangue che ancor su la gonna
Tua ducale rosseggia e sfavilla!
Non forbirlo, o de' Liguri donna;
Odi, a vespro Palermo sonò!
Pittamuli, Carbone, Balilla
Scalzi corran da Prè da Portoria,
Sotto il nobile segno de i Doria,
Dietro il sasso che i mille cacciò.

Dove sono, o Bologna, i possenti,
I guerrier de la tua Montagnola?
Quei che incontro a' metalli roventi
Volan come fanciulle a danzar?
Non più fren di levitica stola
Al furor de le sacre tenzoni!
Spingi in caccia i tuoi torvi leoni!
Senti il cenno per l'aure squillar!

O del Mella viragine forte,
Batti pur su le incudi sonanti,
Stringi pur in arnesi di morte
Del tuo ferro il domato rigor;
Ma rammenta i tuoi pargoli infranti
Su le soglie, i tuoi vecchi scannati,
Ed i petti materni frugati
Da le spade, e l'irriso dolor.

O Firenze, tua libera prole
Dorme tutta ne' templi de' padri
O su' monti ove l'ultimo sole
Il tuo Decio cadendo attestò?
Odo un gemito lungo di madri
Volto al Mincio ed al memore piano
Gli occhi avvalla riscosso il Germano
Da le torri vegliate, e tremò:

Ché un clamor d'irrompente battaglia
Sorge ancor da la trista pianura,
E le azzurre sue luci abbarbaglia
D'incalzanti coorti il fulgor.
A la cinta de l'ispide mura
Su correte, o progenie di forti!
Qui la muta legione de' morti
Qui vi chiama, ed il conscio furor.

Chi è costui che cavalca glorioso
In tra i lampi del ferro e del foco,
Bello come nel ciel procelloso
Il sereno Orione compar?
Ei si noma, e a' suoi cento dièr loco
Le migliaia da i re congiurate:
Ei si noma, e città folgorate
Su le ardenti ruine pugnâr.

Come tuono di nube disserra
Ei li sdegni che Italia raguna:
Ei percuote d'un piede la terra.
E la terra germoglia guerrier.
Garibaldi!... Da l'erma laguna
Leva il capo, o Venezia dolente:
Tu raccogli, o de l'itala gente
Madre Roma, lo scettro e l'imper.

Su, da' monti Carpazi a la Drava,
Da la Bosnia a le tessale cime,
Dove geme la Vistola schiava
Dove suona di pianti il Balcan!
Su, d'amore nel vampo sublime
Scoppin l'ire de l'alme segrete!
Genti oppresse, sorgete, sorgete!
Ne la pugna vi date la man!

Da li scogli che frangon l'Egeo,
Da le rupi ove l'aquile han covo,
O fratelli di Grecia, al Pireo!
Contro l'Asia Temistocle è qui.
Serbo, attendi! su 'l pian di Cossovo
Grande l'ombra di Lazaro s'alza;
Marco prence da l'antro fuor balza,
E il pezzato destriero annitrì.

Strappa omai de' Corvini la lancia
Da le sale paterne, o Magiàro;
Su 'l tuo nero cavallo ti slancia
A le pugne de i liberi dì.
In fra 'l gregge che misero e raro
L'asburghese predon t'ha lasciato,
Perché piangi, o fratello Croato,
Il figliuol che in Italia morì?

In quell'uno che tutti ci fiede,
Che si pasce del sangue di tutti,
Di giustizia d'amore di fede
Tutti armati leviamoci su.
E tu, fine de gli odii e de i lutti,
Ardi, o face di guerra, ogni lido!
Uno il cuore, uno il patto, uno il grido:
Né stranier né oppressori mai più.


LICENZA

Io di poveri fior ghirlanda sono,
Ed Enotrio a le dee m'appese in dono,

Qui l'arte deponendo e il van desio:
Altri chieda la gloria, ed ei l'oblio.



EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Opere di Giosuè Carducci - Juvenilia e Levia Gravia", Ditta Nicola Zanichelli, Bologna, 1891  ( Vedi )







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