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PROLOGO

No, non son morto. Dietro me cadavere
Lasciai la prima vita. Sopra i volti
Che m'arrideano impallidir le rose,
Moriro i sogni de la prima età.
I miei più santi amori io gli ho sepolti,
Sepolti ho nel mio cuore i desii sterili.
Ad altri le ghirlande gloriose
E i tuoi premii divini, o Libertà.

O Lete, o Lete, la tua pia corrente
Sol dunque ne l'inferno o in eden è?
Fiorisce sol nel verso il pio nepente
Ond'Elena infondea le tazze a i re?
Io vo' fuggir del turbine co 'l volo
Dove una torre ruinata so:
Là come lupo ne la notte solo
Io co 'l vento e co 'l mare ululerò.

Ululerò le lugubri memorie
Che mi fasciano l'alma di dolore,
Ululerò gl'insonni accidiosi
Tedi che fuman da la guasta età,
Invidiando il rorido fulgore
De' miei giovani sogni e i desii splendidi
De le infrante catene e gli animosi
Vostri richiami, o Gloria, o Libertà.

Tutto che questo mondo falso adora
Co 'l verso audace lo schiaffeggerò:
Ei mi tese le frodi in su l'aurora,
A mezzogiorno io le calpesterò.
Che se i delùbri crollano e i tempietti
Ove l'ideal vostro, o vulghi, sta,
Che importa a me? Non fo madrigaletti
Che voi mitriate d'immortalità.

Oh, pria ch'io giaccia, altri e più forti e fulgidi
Colpi da l'arco liberar vogl'io,
E su le penne de gli ardenti strali
Mandare io voglio il vampeggiante cor.
Chi sa che su dal ciel la Musa o Dio
Non l'accolga sanando e sovra il torpido
Padule de l'oblio non gli dia l'ali
Da rivolare a gli sperati amor?


[ Giugno 1871 - 13 giugno 1893. ]



LIBRO PRIMO


I

AGLI AMICI DELLA VALLE TIBERINA

Pur da queste serene erme pendici
D'altra vita al rumor ritornerò;
Ma nel memore petto, o nuovi amici,
Un desio dolce e mesto io porterò.

Tua verde valle ed il bel colle aprico
Sempre, o Bulcian, mi pungerà d'amor;
Bulciano, albergo di baroni antico,
Or di libere menti e d'alti cor.

E tu che al cielo, Cerbaiol, riguardi
Discendendo da i balzi d'Apennin,
Come gigante che svegliato tardi
S'affretta in caccia e interroga il mattin,

Tu ancor m'arridi. E, quando a i freschi venti
Di su l'aride carte anelerà
L'anima stanca, a voi, poggi fiorenti,
Balze austere e felici, a voi verrà.

Fiume famoso il breve piano inonda;
Ama la vite i colli; e, a rimirar
Dolce, fra verdi querce ecco la bionda
Spiga in alto a l'alpestre aura ondeggiar.

De i vecchi prepotenti in su gli spaldi
Pasce la vacca e mira lenta al pian;
E de le torri, ostello di ribaldi,
Crebbe l'utile casa al pio villan.

Dove il bronzo de' frati in su la sera
Solo rompeva, od accrescea, l'orror,
Croscia il mulino, suona la gualchiera
E la canzone del vendemmiator.

Coraggio, amici. Se di vive fonti
Córse, tócco dal santo, il balzo alpin,
A voi saggi ed industri i patrii monti
Iscaturiscan di fumoso vin;

Del vin ch'edùca il forte suolo amico
Di ferro e zolfo con natia virtù:
Co 'l quale io libo al padre Tebro antico,
Al Tebro tolto al fin di servitù.

Fiume d'Italia, a le tue sacre rive
Peregrin mossi con devoto amor
Il tuo nume adorando, e de le dive
Memorie l'ombra mi tremava in cor.

E pensai quando i tuoi clivi Tarconte
Coronato pontefice salì,
E, fermo l'occhio nero a l'orizzonte,
Di leggi e d'armi il popol suo partì;

E quando la fatal prora d'Enea
Per tanto mar la foce tua cercò,
E l'aureo scudo de la madre dea
In su l'attonit'onde al sol raggiò;

E quando Furio e l'arator d'Arpino,
Imperador plebeo, tornava a te,
E coprivan l'altar capitolino
Spoglie di galli e di tedeschi re.

Fiume d'Italia, e tu l'origin traggi
Da questa Etruria ond'è ogni nostro onor;
Ma, dove nasci tra gli ombrosi faggi,
L'agnel ti salta e tùrbati il pastor.

Meglio così, che tra marmoree sponde
Patir l'oltraggio de' chercuti re.
E con l'orgoglio de le tumid'onde
L'orme lambire d'un crociato piè.

Volgon, fiume d'Italia, omai tropp'anni
Che la vergogna dura: or via, non più.
Ecco, un grido io ti do – Morte a' tiranni –;
Portalo, o fiume, a Ponte Milvio, tu.

Portal con suono ch'ogni suon confonda,
Portal con le procelle d'Apennin,
Portalo, o fiume; e un'eco ti risponda
Dal gran monte plebeo, da l'Aventin.

Tende l'orecchio Italia e il cenno aspetta:
Allor chi fia che la vorrà infrenar?
Cento schiere di prodi a la vendetta
Da le tue valli verran teco al mar.

Risplendi, o fausto giorno. Ahi, se più tardi,
Romito e taumaturgo esser vorrò:
Da la faccia de' rei figli codardi
Ne le tombe de' padri io fuggirò.

Con l'arti vo' che cielo o inferno insegna
Da questi monti il foco isprigionar,
E fiamme in vece d'acqua a Roma indegna,
Al Campidoglio vile io vo' mandar.


Pieve Santo Stefano, 25 agosto 1867.


II

MEMINISSE HORRET

Sbarrate la soglia, chiudete ogni varco,
Gittatemi intorno densissimo un vel!
D'orribile sogno mi preme l'incarco:
Ho visto di giallo rifulgere il ciel.

Un lezzo nefando d'avello e di fogna
Uscia dal palagio che a fronte ci sta:
Le vecchie campane sonavano a gogna
Di Piero Capponi per l'ampia città,

E giù da' bei colli che a' dì del cimento
Tonavan la morte su 'l fulvo stranier
Un suon di letane scendea lento lento
E pallide torme dicean – Miserer. –

Con giunte le mani prostrato il Ferruccio
Al reo Maramaldo chiedeva mercé,
E Gian de la Bella levato il cappuccio
Mostrava lo schiaffo che Berto gli diè.

E Dante Alighieri vestito da zanni
Laggiù in Santa Croce facea 'l ciceron.
Diceva – Signori, badatevi a' panni!
Entrate, signori: voi siete i padron.

Che importa se l'onta più, meno, ci frutti?
Io sono poeta, né so mercantar.
Il ghetto d'Italia dischiuso è per tutti.
Al popol d'Italia chi un calcio vuol dar? –

E dietro una tomba vid'io Machiavello
De gli occhi ammiccare con un che passò
E dir sotto voce – Crin morbido e bello,
Sen largo ha mia madre; né dice mai no.

Son fòri fulgenti di dorie colonne
I talami aperti di sue voluttà:
Su 'l gran Campidoglio si scigne le gonne
E nuda su l'urna di Scipio si dà. –


Firenze, nei primi giorni di nov. del 1867.


III

PER EDUARDO CORAZZINI
MORTO DELLE FERITE
RICEVUTE NELLA CAMPAGNA ROMANA
DEL MDCCCLXVII

Dunque d'Europa nel servil destino
Tu il riso atroce e santo,
O di Ferney signore, e, cittadino
Tu di Ginevra, il pianto

Messaggeri inviaste, onde gioioso
Abbatté poi Parigi
E la nera Bastiglia e il radioso
Scettro di san Luigi;

Dunque, tra 'l ferro e 'l fuoco, al piano, al monte,
Cantando in fieri accenti,
Co' piedi scalzi e la vittoria in fronte
E le bandiere a' venti,

Vide il mondo passar le tue legioni,
O repubblica altera,
E spazzare a sé innanzi altari e troni,
Come fior la bufera;

Perché, su via di sangue e di tenèbre
Smarriti i figli tuoi
E mutata ad un'upupa funèbre
L'aquila de gli eroi,

Là ne' colli sabini, esercitati
Dal piè de l'immortale
Storia, tu distendessi i neri agguati,
Masnadiera papale,

E, lui servendo che mentisce Iddio,
Francia, a le madri annose
Tu spegnessi i figliuoli et il desio
Di lor vita a le spose,

E noi per te di pianto e di rossore
Macchiassimo la guancia,
Noi cresciuti al tuo libero splendore,
Noi che t'amammo, o Francia?

Ahi lasso! ma de' tuoi monti a l'aprico
Aer e nel chiostro ameno
Più non ti rivedrò, mio dolce amico,
Come al tempo sereno.

Per l'alpestre cammino io ti seguia;
E 'l tuo fucil di certi
Colpi il silenzio ad or ad or ferìa
De' valloni deserti.

L'alta Roma io cantava in riva al fiume
Famoso a l'universo:
E il can latrando a le cadenti piume
Rompeva a mezzo il verso,

O a te accennando usciva impaziente
Fuor de la macchia bruna;
Or raspa su la tua fossa recente,
E piagnesi a la luna.

Squallidi or sono i monti: ma l'aprile
Roseo nel ciel natio
Tornerà, che doveva una gentile
Ghirlanda al tuo desio:

E in vece condurrà l'allegra schiera
De gli augelli in amore
Su l'erba ch'alta andrà crescendo e nera
Dal tuo giovenil core.

Perché i bei colli di vendemmia lieti,
Perché lasciasti, amico,
Sfuggendo a' pianti de l'amor segreti
Sur un volto pudico?

Perché la madre tua lasciasti? Oh, quando
A mensa ella sedea,
Il tuo loco guardava, e lacrimando
Il viso rivolgea.

Madre, perdona. A un cenno tuo la testa,
La balda testa ei piega;
Ma il suo duce prigion bandì la gesta,
E la gran Roma prega.

Egli su' trionfali archi diritta
Vide, nel ciel del Lazio,
Di Roma vide l'alta imago, afflitta
D'inverecondo strazio.

Ella che tien del nostro patto l'arca,
L'ara del nostro dritto;
Per cui Dante gemé, fremé il Petrarca,
E 'l Machiavelli ha scritto;

Austera e pia ne la materna faccia
Con lagrimoso ciglio
Lo riguardava, e gli tendea le braccia,
E gli diceva: O figlio.

Ed ei, questo predone (ascolta, o greggia
Turpe di schiavi, ascolta),
Questo predon cui l'Apennin verdeggia
Di lieti paschi e folta

Mèsse, questo feroce a cui nel core
Ridea queto un desire,
Per lei lasciava il suo solingo amore,
Per lei corse a morire.

Ed or ne' luoghi, ove fra sé ristretta
È la gente de i morti
Per forza, e chiama a Dio la gran vendetta
Che il mondo riconforti,

Or co' i caduti là nel giugno ardente
De l'alta Roma a fronte
E co' i caduti nel decembre algente
De' martiri su 'l monte

Parla, e Nemesi al suo ferreo registro
Guarda con muto orrore,
Parla di lui, del Cesare sinistro,
Del bieco imperatore.

Le madri intanto accusano ne' pianti
Del viver tardo i fati
E con le man che gli addormian lattanti
Compongono gli occhi a' nati,

In vece di ghirlande le fanciulle
Vestonsi i neri panni,
Mancan le vite a le aspettanti culle...
Maledetti i tiranni!

Ma io per man torrommi questa madre
Vedova, questa sposa
Vedova; e, dove fra sue turbe ladre
Quel prete empio riposa,

E sogna d'armi e ad un selvaggio agguato
Pare che frema e rugga,
E su 'l capo gli penzola inchiodato
Gesù perché non fugga,

Là me n'andrò, là sorgerò, per vie
A tutt'altri secrete,
Come una larva del supremo die
Lento, e dirògli – O prete,

Godi. Di larga strage il breve impero
Empisti e le tue brame.
Trionfa nel tuo splendido San Piero,
O vecchio prete infame.

Con le tremule palme al ciel levate
Canta – Osanna, Dio forte –:
L'organo manda per le volte aurate
Un rantolo di morte.

Quando al popol ti volgi, ed – il Signore,
Mormori, sia con voi, –
Come adultera donna a l'amatore,
Guardi a gli sgherri tuoi.

Su le canne d'acciaio in mezzo a' ceri
L'omicidio scintilla:
Tu 'l vedi, e 'l gaudio vela di sinceri
Pianti la tua pupilla.

China su 'l pio mister che si consuma,
China il tuo viso tristo:
Di sangue, mira, il tuo calice fuma;
E non è quel di Cristo.

Ahi, d'italiche vene è sangue schietto,
Nobile sangue e caro!
E una stilla ve n'ha pur di quel petto
Che queste donne amâro;

Queste donne che dièro a' tuoi decreti
Umile il cuor, l'orecchio
Prono; e pregaron anche in lor secreti
Per te, feroce vecchio!

Io, per le grige chiome de la madre
E per le chiome bionde
De la sposa che sciolte or sotto l'adre
Pieghe un sol vel confonde;

Io, per Gesù che a gli uccisor compianse;
Io, per le donne sante,
Maddalena che amò, Maria che pianse,
O vecchio sanguinante;

Te ch'oro e ferro e bronzo mendicando
Te ne vai per la terra,
Che gridi contro a la tua patria il bando
De l'universa guerra;

Te che il lor sangue chiedi con parole
Soavi a' fidi tuoi,
Ed il sangue di chi re non ti vuole
Ferocemente vuoi;

Te da la pietà che piange e prega.
Te da l'amor che liete
Le creature ne la vita lega,
Io scomunico, o prete;

Te pontefice fosco del mistero,
Vate di lutti e d'ire,
Io sacerdote de l'augusto vero,
Vate de l'avvenire.


[ 12-17 gennaio 1868 ].


IV

NEL VIGESIMO ANNIVERSARIO
DELL'VIII AGOSTO MDCCCXLVIII

Ma non così, quando superbo apriva
L'ali e ne' raggi di vittoria adorno
Almo rise d'Italia in ogni riva
Il tuo gran giorno,

Ma non così sperai, Bologna, il canto
Recar votivo a l'urna de' tuoi forti.
Oggi insegna la Musa iroso il pianto.
Fremono i morti

Abbandonati a' retici dirupi,
Il verde Mincio flebile risponde;
E lunge ne gl'issèi pelaghi cupi
Rimugghian l'onde,

Se per l'azzurro ciel la gialla insegna
Passa a gl'itali zefiri ventando
E lieto lo stranier da poppa segna
Il sen nefando.

Ahi, come punto da mortifer angue,
Ahi, di veleno il cor ferve e ribolle!
Fumate ancor d'invendicato sangue,
Romane zolle!

O forti di Bologna, a voi la fuga
De' nemici irraggiava il guardo estinto;
E, mentre posa ed il sudor s'asciuga,
– Abbiamo vinto –

Disse, chinato sopra il sen trafitto
Del compagno, il compagno. A le parole
Pallido ei rise, e su i cubiti ritto
Salutò il sole

Occidente e l'Italia. E la mattina
Lo stranier, come lupo arduo che agogna,
Ululato avea su da la collina:
– Odi, o Bologna.

Le mie vittoriose aquile io voglio
Piantar dove moriva il tuo Zamboni
A i tre color pensando; e vo' l'orgoglio
De' tuoi garzoni

Pestar sì come il piè de' miei cavalli
Pesta il fien de' tuoi campi. A Dio gradito,
Empier di San Petronio io vo' gli stalli
Del lor nitrito.

Vo' il tuo vin pe' miei prodi ed i sorrisi
De le donne: a la mia staffa prostrati
Ne la polvere io vo' gli antichi visi
De' tuoi magnati.

Odi, Bologna. Stride ampia la rossa
Ala del foco su' miei passi: l'ira
Porto e il ferro ed il sal di Barbarossa:
Sermide mira. –

Lo stranier così disse. Ed un umìle
Dolor prostrò per l'alte case il gramo
Cuor de' magnati. Ma la plebe vile
Gridò: Moriamo.

E tra 'l fuoco e tra 'l fumo e le faville
E 'l grandinar de la rovente scaglia
Ti gittasti feroce in mezzo a i mille,
Santa canaglia.

Chi pari a te, se ne le piazze antiche
De' tuoi padri guerreggi? Al tuo furore,
Sì come solchi di mature spiche
Al mietitore,

Cedon le file; e via per l'aria accesa
La furia del rintocco ulula forte
Contro i tamburi e in vetta d'ogni chiesa
Canta la morte.

Da gli odi fiamma d'olocausti santi,
Da i vapori del sangue alito pio
Sale: o martire plebe, a te davanti
Folgora Dio.

Ecco, su' corpi de' mal noti eroi
Erge la patria i suoi color festiva;
Ed i vecchi e le donne e i figli tuoi
Gridano: Viva.

Il tuo sangue a la patria oggi: a la legge
Il sangue e il pan domani. E pur non fai
Tu leggi, o plebe, e, diredato gregge,
Patria non hai.

Ma quei che a te niegan la patria, quelli
Che per sangue e sudor ti dànno oltraggio,
Ne' giorni del conflitto orridi e belli,
Quando al gran raggio

De l'estate si muore e incontro al rombo
De' cannoni le picche ondanti vanno
E co' le pietre si risponde al piombo,
Ove, ove stanno?

Oh qui non le tediose alme trastulla
De' giuochi la vicenda e de le dame!
La santa Libertà non è fanciulla
Da poco rame;

Marchesa ella non è che in danza scocchi
Da' tondeggianti membri agil diletto,
Il cui busto offre il seno ed offron gli occhi
Tremuli il letto:

Dura virago ell'è, dure domanda
Di perigli e d'amor pruove famose:
In mezzo al sangue de la sua ghirlanda
Crescon le rose.

Dormono ancora i fior dolce fiammanti
Ne' bocci verdi; ma il soave e puro
April verrà. D'agosto ombre aspettanti.
Per voi lo giuro.


[ 31 luglio - 4 agosto 1868 ].


V

IL CESARISMO
[ LEGGENDO LA INTRODUZIONE ALLA VITA DI CESARE SCRITTA DA NAPOLEONE III ]

I

Giove ha Cesare in cura. Ei dal delitto
Svolge il diritto, e dal misfatto il fato.
Se un erario al bisogno è scassinato
O un cittadino per error trafitto,

Tutto si sanerà con un editto.
A sua gloria e per forza ei ci ha salvato.
Chi ebbe tenga, e quel ch'è stato è stato.
Nuovo ordine di cose in cielo è scritto. –
Così diceva, senator da ieri,
Il ladro fuggitivo servo Mena;
E la plebe a Labien sassi gittava.

Ma la legione undecima cantava:
– Trionfo! quattro nivei destrieri,
Divin trionfo, al divin Giulio infrena! –


II

Quattro al dio Giulio, o dio Trionfo, infrena,
Come al buon Furio già, nivei cavalli:
Leghi al carro d'avorio aurea catena
L'Egitto e il Ponto e gli Africani e i Galli.

Gracco, la plebe tua straniere valli
Ari a un suo cenno; e tu curva la schiena,
Sangue Cornelio, e a' senator da' gialli
Crin la via mostra che a la curia mena.

Dittatore universo, anche la vaga
Lingua d'Ennio ei fermò; l'anno ha costretto
Errante già per la siderea plaga.

Ma fra tant'inni il mondo ode su 'l petto
Santo di Cato stridere la piaga
E scricchiolar di Nicomede il letto.


Settembre 1868.


VI

PER GIUSEPPE MONTI E GAETANO TOGNETTI
MARTIRI DEL DIRITTO ITALIANO

I

Torpido fra la nebbia ed increscioso
Esce su Roma il giorno:
Fiochi i suon de la vita, un pauroso
Silenzio è d'ogn'intorno.

Novembre sta del Vatican su gli orti
Come di piombo un velo:
Senza canti gli augei da' tronchi morti
Fuggon pe 'l morto cielo.

Fioccano d'un cader lento le fronde
Gialle, cineree, bianche;
E sotto il fioccar tristo che le asconde
Paion di vita stanche

Fin quelle, che d'etadi e genti sparte
Mirar tanta ruina
In calma gioventù, forme de l'arte
Argolica e latina.

Il gran prete quel dì svegliossi allegro,
Guardò pe' vaticani
Vetri dorati il cielo umido e negro,
E si fregò le mani.

Natura par che di deforme orrore
Tremi innanzi a la morte:
Ei sente de le piume anco il tepore
E dice – Ecco, io son forte.

Antecessor mio santo, anni parecchi
Corser da la tua gesta:
A te, Piero, bastarono gli orecchi;
Io taglierò la testa.

A questa volta son con noi le squadre,
Né Gesù ci scompiglia:
Egli è in collegio al Sacro Cuore, e il padre
Curci lo tiene in briglia.

Un forte vecchio io son; l'ardor de i belli
Anni in cuor mi ritrovo:
La scure che aprì 'l cielo al Locatelli
Arrotatela a novo.

Sottil, lucida, acuta, in alto splenda
Ella come un'idea:
Bello il patibol sia: l'oro si spenda
Che mandò Il Menabrea.

I francesi, posato il Maometto
Del Voltèr da l'un canto,
Diano una man, per compiere il gibetto,
Al tribunal mio santo.

Si esponga il sacramento a San Niccola
Con le indulgenze usate,
Ed in faccia a l'Italia mia figliuola
Due teste insanguinate. –


II

E pur tu sei canuto: e pur la vita
Ti rifugge dal corpo inerte al cuor,
E dal cuore al cervel, come smarrita
Nube per l'alpi solvesi in vapor.

Deh, perdona a la vita! A l'un vent'anni
Schiudon, superbi araldi, l'avvenir;
E in sen, del carcer tuo pur tra gli affanni.
La speme gli fiorisce et il desir.

Crescean tre fanciulletti a l'altro intorno,
Come novelli del castagno al piè;
Or giaccion tristi, e nel morente giorno
La madre lor pensa tremando a te.

Oh, allor che del Giordano a i freschi rivi
Traea le turbe una gentil virtù
E ascese a le città liete d'ulivi
Giovin messia del popolo Gesù,

Non tremavan le madri; e Naim in festa
Vide la morte a un suo cenno fuggir
E la piangente vedovella onesta
Tra il figlio e Cristo i baci suoi partir.

Sorridean da i cilestri occhi profondi
I pargoletti al bel profeta umìl;
Ei lacrimando entro i lor ricci biondi
La mano ravvolgea pura e sottil.

Ma tu co 'l pugno di peccati onusto
Calchi a terra quei capi, empio signor,
E sotto al sangue del paterno busto
De le tenere vite affoghi il fior.

Tu su gli occhi de i miseri parenti
(E son tremuli vegli al par di te)
Scavi le fosse a i figli ancor viventi,
Chierico sanguinoso e imbelle re.

Deh, prete, non sia ver che dal tuo nero
Antro niun salvo a l'aure pure uscì;
Polifemo cristian, deh non sia vero
Che tu nudri la morte in trenta dì.

Stringili al petto, grida – Io del ciel messo
Sono a portar la pace, a benedir –
E sentirai dal giovanile amplesso
Nuovo sangue a le tue vene fluir...

In sua mente crudel (volgonsi inani
Le lacrime ed i prieghi) egli si sta:
Come un fallo gittò gli affetti umani
Ei solitario ne l'antica età.


III

Meglio così! Sangue dei morti, affretta
I rivi tuoi vermigli
E i fati; al ciel vapora, e di vendetta
Inebria i nostri figli.

Essi, nati a l'amore, a cui l'aurora
De l'avvenir sorride
Ne le limpide fronti, odiino ancora,
Come chi molto vide.

Mirate, udite, o avversi continenti.
O monti al ciel ribelli,
Isole e voi ne l'oceàn fiorenti
Di boschi e di vascelli;

E tu che inciampi, faticosa ancella,
Europa, in su la via;
E tu che segui pe' i gran mar la stella
Che al Penn si discovria;

E voi che sotto i furiosi raggi
Serpenti e re nutrite,
Africa ed Asia, immani, e voi selvaggi,
Voi, pelli colorite;

E tu, sole divino: ecco l'onesto
Veglio, rosso le mani
Di sangue e 'l viso di salute: è questo
L'angel de gli Sciuani.

Ei, prima che il fatale esecutore
Lo spazzo abbia lavato,
Esce raggiante a delibar l'orrore
Del popolo indignato.

Ei, di demenza orribile percosso,
Com'ebbro il capo scuote,
E vorria pur vedere un po' di rosso
Ne l'òr de le sue ruote.

Veglio! son pompe di ferocie vane
In che il tuo cor si esala,
E in van t'afforza a troncar teste umane
Quei che salvò i La Gala.

Due tu spegnesti; e a la chiamata pronti
Son mille, ancor più mille.
I nostri padiglion splendon su i monti,
Ne' piani e per le ville,

Dovunque s'apre un'alta vita umana
A la luce a l'amore:
Noi siam la sacra legion tebana,
Veglio, che mai non muore.

Sparsa è la via di tombe, ma com'ara
Ogni tomba si mostra:
La memoria de i morti arde e rischiara
La grande opera nostra.

Savi, guerrier, poeti ed operai,
Tutti ci diam la mano:
Duro lavor ne gli anni, e lieve omai
Minammo il Vaticano.

Splende la face, e il sangue pio l'avviva;
Splende siccome un sole:
Sospiri il vento, e su l'antica riva
Cadrà l'orrenda mole.

E tra i ruderi in fior la tiberina
Vergin di nere chiome
Al peregrin dirà: Son la ruina
D'un'onta senza nome.


30 novembre 1868.


VII

HEU PUDOR!

I

Mènte chi dice ch'ove il core avvampa
Secondi l'aura de l'acceso ingegno.
Avrei ben io d'infame eterna stampa
Segnato in fronte questo gregge indegno.

Feroce forse come il tuo m'accampa,
Dante padre, nel cuore odio e disdegno;
Ma chiusa rugge la vorace vampa
Me distruggendo, e mai non giunge al segno.

Altri laghi di pegola, addensata
Di serpenti di mostri e dimon duri
Altra e duplice bolgia avrei scavata;

E v'avrei co' suoi monti e co' suoi muri,
Come uno straccio lurido, gettata
Questa terra di Fucci e di Bonturi.


II

No. Vanni Fucci in faccia a Dio rubava
Con la bestemmia in bocca e in fronte il riso,
Ribadito di serpi egli squadrava
Da l'inferno le fiche al paradiso:

Il poco pan che del suo pianto lava
Ed è nel sangue de' suoi figli intriso
Voi rubate a la patria, e poi con brava
Lingua sputate a lei virtù su 'l viso.

Le case de' nemici al sol lucente,
Con la face a una man, ne l'altra i dardi,
Vanni Fucci cercò superbamente:

Voi, ne la chiusa notte, a passi tardi,
Ferite al canto; voi da l'aurea lente
Piccioletti ladruncoli bastardi.


III

Da le tombe del pian che aprile infiora
E da i monti che batte il verno immite
E da quelle che il mar cuopre e colora,
Morti d'Italia, venite, venite!

Mirate, o morti: il sangue vostro irrora,
Ricadendo aureo nembo, a lor le vite;
Empie a' lenoni il ventre e rincolora
Le rose a' ludi de l'amor sfiorite.

Mirate, o morti: ei fûr che la vittoria
Vi contesero un giorno, e, candid'ossa,
Sol del martirio avvolge voi la gloria:

Ora di lor viltà ne l'ardua possa,
Ora sfidando i popoli e la storia,
Ora barattan su la vostra fossa.


1868-69.


VIII

LE NOZZE DEL MARE
ALLORA E ORA

Quando ritto il doge antico
Su l'antico bucentauro
L'anel d'oro dava al mar,
E vedeasi, al fiato amico
De la grande sposa cerula,
Il crin bianco svolazzar;

Sorrideva nel pensiero
Ne le fronti a' padri tremuli
De' forti anni la virtù,
E gittava un guardo altero,
Muta, a l'onde, al cielo, a l'isole,
La togata gioventù.

Ma rompea superbo un canto
Da l'ignudo petto ed ispido
De gli adusti remator,
Ch'oggi, vivono soltanto,
Tizian, ne le tue tavole,
Ignorati vincitor.

Ei cantavano San Marco,
I Pisan, gli Zeni, i Dandoli,
Il maggior de i Morosin;
E pe' i sen lunati ad arco
Lunghi gli echi minacciavano
Sino al Bosforo e a l'Eussin.

Ne la patria del Goldoni
Dopo il dramma lacrimevole
La commedia oggi si dà:
De i grandi avi i padiglioni
Son velari, onde una femmina
Il mar d'Adria impalmerà.

Le carezze fien modeste:
Consumare il matrimonio
I due sposi non potran:
Paraninfa, da Trieste
L'Austria ride; e i venti illirici
L'imeneo fischiando van.

Fate al Lido un po' di chiasso
E su a bordo un po' di musica!
Le signore hanno a danzar.
Ma, per dio, sonate basso:
Qualcheduno a Lissa infracida,
Che potrebbesi svegliar.

Bah! qui porgono la mano
Vaghe donne, a sprizzi fervidi
Lo sciampagna esulta qui.
Conte Carlo di Persano,
Oggi a festa i bronzi rombano:
Non mancate al lieto dì.


Luglio 1869.


IX

VIA UGO BASSI

Quando porge la man Cesare a Piero,
Da quella stretta sangue umano stilla:
Quando il bacio si dan Chiesa e Impero,
Un astro di martirio in ciel sfavilla.

Ma nel cuor de le genti il chiuso vero
Con un guizzo d'amor risponde e brilla:
Ne la notte l'amor e nel mistero
Le folgori de l'ira dissigilla.

Di ghirlande votive or questa via
Nel solenne suo dì Bologna adombra
D'un prete sconsacrato a l'alma pia.

Ma lascia tu nel gran concilio sgombra,
Roma, una sedia: a te Bologna invia
Tra' carnefici suoi del Bassi l'ombra.


Agosto 1869.


X

ONOMASTICO

Ugo il poeta, allor che Italia in forse
Di vita ne' servili ozi giacea,
Co 'l verbo ardente il secolo percorse,
Scossel con l'ira che virtù ricrea.

Allor che Italia dal giaciglio sorse
Giovenilmente e libertà chiedea,
Lei lo zel d'Ugo martire precorse
E poi co 'l sangue suggellò l'idea.

Ov'è dissidio tra il pensiero e l'opra
E larva la parola è del pensiero
E la parvenza a l'essere va sopra:

O giovinetto, il bel nome severo,
Tuo domestico vanto, la via scopra:
Intera libertà vuol l'uomo intero.


[ Novembre 1871 ].


XI

LA CONSULTA ARALDICA

Cercate pur se il pio siero che stagna
Nel cor d'un paolotto ignoto al dì,
Da i reni d'un ladron de l'Alemagna
Sangue cavalleresco un giorno uscì,

Se ne la tabe che da gli avi nacque
E strugge ai figli l'ultimo polmon
Vive la colpa d'una rea che piacque
Adultera latina al biondo Otton.

Deh dite: quante belve a cui le spade
Affondar ne la carne era virtù,
Quanti marchesi che assalian le strade,
Quanti mitrati che vendean Gesù,

Quanti storici gradi di peccato
Occorron dunque, dite in vostra fé
Per poter la camicia di bucato
Porger la mane al dormiglioso re?

Per quante aule di barbari signori
Vigilate dal pubblico terror
Bisogna aver contaminato i cuori
Ed i ginocchi, e quante volte ancor

Rinnegata la misera latina
Patria e del suo comun le libertà,
Per poter di diritto a la regina
Tener la coda quando a messa va?

Oh non per questo dal fatal di Quarto
Lido il naviglio de i mille salpò,
Né Rosolino Pilo aveva sparto
Suo gentil sangue che vantava Angiò.

Ma voi da l'arche, voi da gli scaffali,
Invidiando a i vermi ombra e sopor,
Corna di cervi e teschi di cignali
Ed ugnoli d'arpie mettete fuor;

Ed a gli scheltri de le ree castella
Che foscheggian pe 'l verde ermo Apennin,
Poi che l'austero e pio Gian de la Bella
Trasse i baroni a pettinare il lin
(E allora il pugno già contratto al brando
Ne l'opera plebea ben si spianò,
E su le labbra tumide il comando
In lusinga servile iscivolò),

A quegli scheltri voi chiedete ancora
Le targhe colorate e il pennoncel;
E vorreste veder l'antica aurora
Arrider mesta a un gotico bertel.

O dormenti nel giorno, il gallo canta,
Ferve il lavoro e cedon l'ombre al ver;
L'azzurro oltremarin di Terra santa
È bava di lumaca in suo sentier.

Rendete pur, rendete a i vecchi scudi
Il pallid'oro che l'ebreo raschiò
Ed a gli elmi le corna: io questi ludi
A la vecchiezza invidiar non so.

E aspettate così ne le supreme
Gran gale, o morituri, il funeral:
La libertà tocca il tamburo, e insieme
Dileguan medio evo e carneval.


Ottobre 1869.


XII

NOSTRI SANTI E NOSTRI MORTI

A i dì mesti d'autunno il prete canta
I morti in terra ed i suoi santi in ciel,
E muta il suon de' bronzi, e l'are ammanta
Oggi di lieto e doman d'atro vel.

Noi d'un cuor solo e con un solo rito
A' tuoi santi e a' tuoi morti, o libertà,
Libiamo il vin del funeral convito,
Come la Grecia ne le antiche età.

Ahi, ma libando a' gloriosi estinti
Ne i dì fausti la greca gioventù
Rammemorava i regi uccisi e i vinti,
E in Atene regnavi unica tu.

De' nostri morti in su le fosse erbose
Pasce il crociato belga il suo destrier:
Il vostro sangue, o eroi, nudrì le rose
Di tiranni lascivi a l'origlier.

Da i monti al mar la bianca turba, eretta
In su le tombe, guarda, attende e sta:
Riposeranno il dì de la vendetta,
De la giustizia e de la libertà.


Faenza, 1 novembre 1869.


XIII

IN MORTE DI GIOVANNI CAIROLI

O Villagloria, da Crèmera, quando
La luna i colli ammanta,
A te vengono i Fabi, ed ammirando
Parlan de' tuoi settanta.

Tinto del proprio e del fraterno sangue
Giovanni, ultimo amore
De la madre, nel seno almo le langue,
Caro italico fiore.

Il capo omai da l'atra morte avvolto
Levasi; ed improvviso
Trema su 'l bianco ed affilato volto
L'aleggiar d'un sorriso,

L'occhio ne l'infinito apresi, il fere
Da l'avvenire un raggio:
Vede allegre sfilar armi e bandiere
Per un gran pian selvaggio,

E in mezzo il duce glorioso: ondeggia
La luminosa chioma
A l'aure del trionfo: il sol dardeggia
Laggiù in fondo su Roma.

Apri, Roma immortale, apri le porte
Al dolce eroe che muore:
Non mai, non mai ti consacrò la morte,
Roma, un più nobile core.

Del cor suo dal bordel venda un fallito
Cetégo la parola,
Eruttando che il tuo gran nome è un mito
Per le panche di scola:

Al divieto straniero adagi Ciacco
L'anima tributaria
Su l'altro lato, e dica – Io son vigliacco,
E poi c'è la mal'aria –:

Per te in seno a le madri, ecco, la morte
Divora altri figliuoli:
Apri, Roma immortale, apri le porte
A Giovan Cairoli.

Egli, ombra vigilante a i dì novelli,
Il tuo silenzio antico
Abiterà co' Gracchi e co' Marcelli
E co 'l suo forte Enrico.

L'ali un dì spiegherà su 'l Campidoglio
La libertà regina:
Groppello, allor da ogni ultimo scoglio
De la terra latina,

E giù da l'Alpi e giù da gli Apennini,
Garzoni e donne a schiera
Verranno a te, fiorite i lunghi crini
D'aulente primavera.

E con lor sarà un vate, radioso
Ne la fronte divina,
Come Sofocle già nel glorioso
Trofeo di Salamina:

Ei toccherà le corde, e de i fratelli
Dirà la santa gesta;
Né mai la canzon ionia a' dì più belli
Risonò come questa.

Groppello, a te co 'l solitario canto
Nel mesto giorno io vegno,
E m'accompagna de l'Italia il pianto
E, nube atra, lo sdegno:

Nel mesto giorno che la quarta volta
Te visitò la Parca,
E sott'essa la tua funerea volta
Batte il martel su l'arca

Del giovinetto, la cui mite aurora
Empiva i clivi tuoi
Di roseo lume. Oh come sola è ora
La casa de gli eroi!

De le sue stanze pe 'l deserto strano
S'incontran due viventi:
Tristi echi rende il sepolcreto vano
Sotto i lor passi lenti:

Avvalla il figlio de la madre in faccia
Il viso e gli occhi muti,
Che non rivegga in lui la cara traccia
De' suoi quattro perduti.

O madre, o madre, a i dì de la speranza
Dal tuo grembo fecondo
Cinque valenti uscieno: ecco, t'avanza
Oggi quest'uno al mondo.

L'alma benigna nel sereno viso
Splendea di que' gagliardi,
Come del sol di giugno il vasto riso
Sovra i laghi lombardi.

Ahi, ahi! de gli stranier tutte le spade
La carne tua gustaro!
Ahi, ahi! d'Italia tutte le contrade
Del cor tuo sanguinaro!

Qual cor fu il tuo, quando l'estremo spiro.
O madre de gli eroi,
Di lui ti rinnovò tutto il martiro
Di tutti i figli tuoi!

Or su le tombe taciturne siedi,
O donna de i dolori,
E i dì estremi volar sopra ti vedi
Come liberatori.

Qui cinque addur nuore dovevi a' nati,
Madre gentile e altera;
Cara speme di prole a' tuoi penati
Ed a la patria: e nera

Suoi segni stende per le avite stanze
La morte. Ma d'augùri
Rifulgon liete e suonano di danze
Le case de' Bonturi.

Corre ivi a fiotti il vino, e sangue sembra;
L'orgia a le fami insulta;
De le adultere ignude in su le membra
La libidine esulta.

I barcollanti amori, in mal feconde
Scosse, d'obliqua prole

Seminan tutte queste serve sponde,
Ed oltraggiano il sole.
E il tradimento e la vigliaccheria,
Sì come cani in piazza,
Ivi s'accoppian anche: ebra la ria
Ciurma intorno gavazza,

E i viva urla a l'Italia. Maledetta
Sii tu, mia patria antica,
Su cui l'onta de l'oggi e la vendetta
De i secoli s'abbica!

La pianta di virtù qui cresce ancora,
Ma per farsene strame
I muli tuoi: qui la viola odora
Per divenir letame.

Oh, risvegliar che val l'ira de i forti,
Di Dante padre l'ira?
Solingo vate, in su l'urne de' morti
Io vo' spezzar la lira.

Accoglietemi, udite, o de gli eroi
Esercito gentile:
Triste novella io recherò fra voi:
La nostra patria è vile.


[ Settembre 1869 - febbraio 1870 ].


XIV

PER LE NOZZE DI CESARE PARENZO

– Superbo! e lui non tocca
Gentil senso d'amore:
Motto di rosea bocca
A lui non scende in core.
Ei per la via de gli anni
Tutt'i soavi inganni

Gittò, gittò la soma
De le memorie pie;
E con la mente doma
Da torve fantasie,
Solitario, aggrondato,
Va pe 'l divin creato.

Amor covava in petto
Al buon veglio di Teo:
In lui l'ira e 'l dispetto
Albergo e nido feo,
E la Furia pon l'ova,
E la Musa le cova;

E guizzan viperette
Da i sanguinosi vani,
E fischian su le vette
De' versi orridi e strani,
E lingueggiano al sole
Tra rovi di parole. –

E pur (m'udite, o voi
Che un dì mi amaste) ancora
Dischiude i color suoi
E in mezzo al cor m'odora
Più soave che pria
Il fior di poesia.

E ne vo' far ghirlande
Per le fronti severe
Ove suoi raggi spande
L'onor et il dovere,
E per le fronti belle
Di pudiche donzelle.

O monti, o fiumi, o prati:
O amori integri e sani;
O affetti esercitati
Fra una schiatta d'umani
Alta gentile e pura;
O natura, o natura;

Da questo reo mercato
Di falsitadi, anelo
A voi, come piagato
Augello al proprio cielo
Dal fango ond'è implicata
L'ala al sereno usata.

Dolci sonate e molli
Aleggiate, o miei versi,
Qual d'Imetto da i colli
Di roseo lume aspersi
Mormoravan giulivi
Del bel Cefiso a i rivi

Gli sciami de le attee
Api, ed allora inchino
Libava a le tre dee
Il tragico divino
Meditando i secreti
Di Colono oliveti.

Dolci sonate e puri
De la candida festa
Fra i domestici augùri:
Parenzo oggi a la onesta
Tua legge affida, o amore,
Il prode ingegno e il core.

E ride la donzella
A l'amator marito,
Lei che tacita e bella
L'attese, ed a l'ardito
Guerrier di nostra fede
Serbò questa mercede.

Oh dolce oblio profondo
De le lotte anelanti!
Oh divisi dal mondo
Susurri de gli amanti,
Che l'aura pia diffonde
Tra l'ombre e tra le fronde,

Ma in ciel par che gl'intenda
Espero amico lume
E soave risplenda
Con fraterno costume
A la fronte levata
De la fanciulla amata!

Se non che dietro rugge
La marea de la vita,
E l'anima che fugge
Chiama a la via smarrita:
In su l'aspro sentiero
Tornate, o sposi, e al vero.

Da i vostri amori, o prode
Gioventù di mia terra,
A la forza e a la frode
Esca perenne guerra,
Esca a l'italo sole
Una robusta prole;

E il sano occhio nel giorno
Del ver fisi giocondo,
E tutto a lei d'intorno
Rida libero il mondo.
Non è divino fato
Il dolore e il peccato.

A l'armi, a l'armi, o amore!
Tu puoi, tu sol, cotanto!
Se questa speme in core
Io porti, ancora il canto
Da l'anima ferita
Gitterò ne la vita;

E su 'l ginocchio, come
Il gladiator tirreno,
Poggiato, io, fra le chiome
E nel riarso seno
La fresc'aura sentendo,
Morirò combattendo.


[ 1-3 maggio 1870 ].



RIPRESA


XV

AVANTI! AVANTI!

I

Avanti avanti, o sauro destrier de la canzone!
L'aspra tua chioma porgimi, ch'io salti anche in arcione,
Indomito destrier.
A noi la polve a l'ansia del corso, e i rotti vènti,
E il lampo de le selici percosse, e de i torrenti
L'urlo solingo e tier.

I bei ginnetti italici han pettinati crini,
Le constellate e morbide aiuole de' giardini
Sono il lor dolce agon:
Ivi essi caracollano in faccia a i loro amori,
La giuba a tempo fluttua vaga tra i nastri e i fiori
De le fanfare al suon;

E, se lungi la polvere scorgon del nostro corso,
Il picciol collo inarcano e masticando il morso
Par che rignino – Ohibò! –
Ma l'alfana che strascica su l'orlo de la via
Sotto gualdrappe e cingoli la lunga anatomia
D'un corpo che invecchiò,

Ripensando gli scalpiti de' corteggi e le stalle
De' tepid'ozi e l'adipe de la pasciuta valle,
Guarda con muto orror.
E noi corriamo a' torridi soli, a' cieli stellati,
Per note plaghe e incognite, quai cavalier fatati,
Dietro un velato amor.

Avanti, avanti, o sauro destrier, mio forte amico!
Non vedi tu le parie forme del tempo antico
Accennarne colà?
Non vedi tu d'Angelica ridente, o amico, il velo
Solcar come una candida nube l'estremo cielo?
Oh gloria, oh libertà!


II

Ahi, da' prim'anni, o gloria, nascosi del mio cuore
Ne' superbi silenzii il tuo superbo amore.
Le fronti alte del lauro nel pensoso splendor
Mi sfolgorâr da' gelidi marmi nel petto un raggio,
Ed obliai le vergini danzanti al sol di maggio
E i lampi de' bianchi omeri sotto le chiome d'òr.

E tutto ciò che facile allor prometton gli anni
Io 'l diedi per un impeto lacrimoso d'affanni,
Per un amplesso aereo in faccia a l'avvenir.
O immane statua bronzea su dirupato monte,
Solo i grandi t'aggiungono, per declinar la fronte
Fredda su 'l tuo fredd'omero e lassi ivi morir.

A più frequente palpito di umani odii e d'amori
Meglio il petto m'accesero ne' lor severi ardori
Ultime dee superstiti giustizia e libertà;
E uscir credeami italico vate a la nuova etade,
Le cui strofe al ciel vibrano come rugghianti spade,
E il canto, ala d'incendio, divora i boschi e va.

Ahi, lieve i duri muscoli sfiora la rima alata!
Co 'l tuon de l'arma ferrea nel destro pugno arcata,
Gentil leopardo, lanciasi Camillo Demulèn,
E cade la Bastiglia. Solo Danton dislaccia,
Per rivelarti a' popoli, con le taurine braccia,
O repubblica vergine, l'amazonio tuo sen.

A noi le pugne inutili. Tu cadevi, o Mameli,
Con la pupilla cerula fisa e gli aperti cieli,
Tra un inno e una battaglia cadevi; e come un fior
Ti rideva da l'anima la fede, allor che il bello
E biondo capo languido chinavi, e te, fratello
Copria l'ombra siderea di Roma e i tre color;

Ed al fuggir de l'anima su la pallida faccia
Protendea la repubblica santa le aperte braccia
Diritta in fra i romulei colli e l'occiduo sol.
Ma io d'intorno premere veggo schiavi e tiranni,
Ma io su 'l capo stridere m'odo fuggenti gli anni:
– Che mai canta, susurrano, costui torbido e sol?

Ei canta e culla i queruli mostri de la sua mente,
E quel che vive e s'agita nel mondo egli non sente. –
O popolo d'Italia, vita del mio pensier,
O popolo d'Italia, vecchio titano ignavo,
Vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: Bravo;
E de' miei versi funebri t'incoroni il bicchier.


III

Avanti, avanti, o indomito destrier de gl'inni alato!
Obliar vo' nel rapido corso l'inerte fato,
I gravi e oscuri dì.
Ricordi tu, bel sauro, quando al tuo primo salto
I falchi salutarono augurando ne l'alto
E il bufolo muggì?

Ricordi tu le vedove piagge del mar toscano,
Ove china su 'l nubilo inseminato piano
La torre feudal
Con lunga ombra di tedio da i colli arsicci e foschi
Veglia de le rasenie cittadi in mezzo a' boschi
Il sonno sepolcral.

Mentre tormenta languido sirocco gli assetati
Caprifichi che ondeggiano su i gran massi quadrati
Verdi tra il cielo e il mar,
Su i gran massi cui vigile il mercator tirreno
Saliva, le fenicie rosse vele nel seno
Azzurro ad aspettar?

Ricordi Populonia, e Roselle, e la fiera
Torre di Donoratico a la cui porta nera
Conte Ugolin bussò
Con lo scudo e con l'aquile a la Meloria infrante,
Il grand'elmo togliendosi da la fronte che Dante
Ne l'inferno ammirò?

Or (dolce a la memoria) una quercia su 'l ponte
Levatoio verdeggia e bisbiglia, e del conte
Novella il cacciator
Quando al purpureo vespero su la bertesca infida
I falchetti famelici empiono il ciel di strida
E il can guarda al clamor.

Là tu crescesti, o sauro destrier de gl'inni, meco;
E la pietra pelasgica ed il tirreno speco
Fûro il mio solo altar;
E con me nel silenzio meridian fulgente
I lucumoni e gli àuguri de la mia prima gente
Veniano a conversar.

E tu pascevi, o alivolo corridore, la biada
Che ne' solchi de i secoli aperti con la spada
Dal console roman
Dante, etrusco pontefice redivivo, gettava;
Onde al cielo il tuo florido terzo maggio esultava,
Comune italian,

Tra le germane faide e i salmi nazareni
Esultava nel libero lavoro e ne i sereni
Canti de' mietitor.
Chi di quell'orzo pascesi, o nobile corsiero,
Ha forti nervi e muscoli, ha gentile ed intero
Nel sano petto il cor.

Dammi or dunque, apollinea fiera, l'alato dorso:
Ecco tutte le redini io ti libero al corso:
Corriam, fiera gentil.
Corriam de gli avversarii sovra le teste e i petti,
De' mostri il sangue imporpori i tuoi ferrei garetti;
E a noi rida l'april,

L'april de' colli italici vaghi di mèssi e fiori,
L'april santo de l'anima piena di nuovi amori,
L'aprile del pensier.
Voliam sin che la folgore di Giove tra la rotta
Nube ci arda e purifichi, o che il torrente inghiotta
Cavallo e cavalier,

O ch'io discenda placido dal tuo stellante arcione,
Con l'occhio ancora gravido di luce e visione,
Su 'l toscano mio suol,
Ed al fraterno tumolo posi da la fatica,
Gustando tu il trifoglio da una bell'urna antica
Verso il morente sol.


[ Ottobre 1870 - gennaio 1873 ].



LIBRO SECONDO


XVI

A CERTI CENSORI

No, le luci non ha di Maddalena
Molli e del pianger vaghe;
No, balsami non ha la mia Camena
Per le fetenti piaghe.

Né Cristi siete voi: per ogni fòro
L'anima vostra impura
Fornicò; se v'ha conci il reo lavoro,
Ci pensi la questura.

Ma Fulvia, in quel che la persona bella
Rileva su 'l divano
Ravviando al crin fulgido le anella
Con la tremante mano

E le pieghe a la vesta, tutta in viso
Vermiglia e di piacere
Spumante, con un guardo e con un riso
Ove tutta Citere

Lampeggia e a cui Laide erudita avria
Aggiudicato il mirto,
– Odio – dice – la triste poesia
Che rinnega lo spirto. –

E il buffon Mena, ch'empie d'inodora
Corruzion la pancia
E via co 'l guanto profumato sfiora
Gli schiaffi de la guancia,

Dice – A me giova tra un bicchier di Broglio
E l'altro metter l'ale.
Io mi sento meschino, e a cena voglio
Del soprannaturale

E de i tartufi... Via, dopo l'arrosto
Fa bene un po' d'azzurro:
Apri, poeta: il cielo, il cielo, a costo
Di pigliare un cimurro!

Nel cospetto del ciel l'ebrezza casca
Del senso riscaldato.
Il canto è fede. – E s'accarezza in tasca
Il soldo ruffianato.

Ecco Pomponio, a le cui false chiome
E al giallo adipe arguto,
Dolce Pimplea, tu splendi in vista come
Un grosso angel paffuto

Che ne le chiese del Gesù stuccate
Su le nubi s'adagia,
Su le nubi dorate e inargentate
Che paion di bambagia.

– Amore, amore! – ei sbuffa – il mondo nuota
Tutto nel latt'e miele:
Le rane come me lasciar la mota
E le vipere il fiele.

Vero; un asino crepa a quando a quando
Di martirio o di fame:
Ma il listino a la borsa va montando
E a Pegaso lo strame.

Ho de' valori pubblici, un'amante
Paolotta e un giornale
Del centro che mi paragona a Dante:
Io canto l'ideale.

Seguo l'arte che l'ali erge e dilata
A più sublimi sfere:
Lungi le Muse de la barricata,
Le Grazie petroliere! –

Così le belle e i vati e i savi in coro
Mi vietano con gesto
Di drammatico orrore il sacro alloro...
Deh via, chi ve l'ha chiesto?

Quand'io salgo de' secoli su 'l monte
Triste in sembianti e solo,
Levan le strofe intorno a la mia fronte,
Siccome falchi, il volo.

Ed ogni strofe ha un'anima; ed a valle
Precipita e rimbomba,
Come fuga d'indomite cavalle,
Con la spada e la tromba;

E con la spada alto volando prostra
I mostri ed i giganti,
E con la tromba a la suprema giostra
Chiama i guerrier festanti.

Al passar de le aeree fanciulle
Fremon per tutti i campi
L'ossa de' morti, e i tumoli a le culle
Mandan saluti e lampi.

E il giovinetto pallido, a cui cade
Su gli occhi umido un velo,
Sogna la morte per la libertade
In faccia al patrio cielo.

Avanti, avanti, o messaggere armate
Di fede e di valore!
Su l'ali vostre a più felice etate
Lancio il mio vivo cuore.

A voi la vita mia: me ignota fossa
Accolga innanzi gli anni:
Pugnate voi contro ogni iniqua possa,
Contro tutti i tiranni!


19 dicembre 1871.


XVII

PER IL LXXVIII ANNIVERSARIO
DALLA PROCLAMAZIONE
DELLA REPUBBLICA FRANCESE

Sol di settembre, tu nel cielo stai
Come l'uom che i migliori anni finì
E guarda triste innanzi: i dolci rai
Tu stendi verso i nubilosi dì.

Mesto è sereno, limpido e profondo,
Per l'ampia terra il tuo sorriso va:
Tu maturi su i colli il vino, e al mondo
Riporti i fasti de la libertà.

Mescete, o amici, il vino. Il vin fremente
Scuota da i molli nervi ogni torpor,
Purghi le nubi de l'afflitta mente,
Affoghi il tedio accidioso in cor.

Vino e ferro vogl'io come a' begli anni
Alceo chiedea nel cantico immortal:
Il ferro per uccidere i tiranni,
Il vin per festeggiarne il funeral.

Ma il ferro e il bronzo è de' tiranni in mano;
E Kant aguzza con la sua Ragion
Pura il fredd'ago del fucil prussiano,
Korner strascica il bavaro cannon.

Cavalca intorno a l'avel tuo, Voltèro,
Il diletto di Dio Guglielmo re,
Che porta sopra l'elmo il sacro impero,
Sotto l'usbergo la crociata fé,

E ne la man che in pace tra il sacrato
Calice ed il boccal pia tentennò
Porta l'acciar che feudal soldato
Ne le stragi badesi addottrinò,

E crolla eretta al ciel la bianca testa...
O repubblica antica, ov'è il tuo tuon?
Il cavallo del re, senti, ti pesta,
E dormi ne la tua polve, o Danton?

Mescete vino e oblio. La morta gente,
O epigoni, fra noi non torna più!
Il turbin ne la voce e nel possente
Braccio egli avea la muscolar virtù

Del popol tutto. Oh, il dì più non ritorna
Ch'ei tauro immane le strambe spezzò,
E mugghiò ne l'arena, e su le corna
I regi i preti e gli stranier portò!

Mescete vino, amici. E sprizzò allora
Da i cavi di Marat occhi un balen
Di riso: ei sollevò da l'antro fuora
La terribile fronte al dì seren.

Matura ei custodìa nel sen profondo
L'onta di venti secoli e il terror:
Quanto di più feroce e di più immondo
Patîr le plebi a lui stagnava in cor.

Le stragi sotto il sol disseminate,
I martìr d'ogni sesso e d'ogni età,
I corpi infranti e l'alme violate
E le stalle del conte d'Artoà,

Tutto ei sentia presente: il sanguinoso
Occhio rotava in quel vivente orror,
E chiedea con funèbre urlo angoscioso
Mille vendette ed un vendicator.

De l'odio e del dolor l'esperimento
Il cor gli ottuse e il senso gli acuì:
Ei fiutò come un cane il tradimento,
E come tigre ferita ruggì.

Ma quel che su da l'avvenir salia
D'orror fremito udì Massimilian,
E come falciator per la sua via,
L'occhio ebbe al cielo ed al lavor la man.

De' solchi pareggiati in su 'l confino
Il turbine vi attende, o mietitor:
O mietitori foschi del destino,
Non fornirete voi l'atro lavor.

Maledetto sia tu per ogni etade,
O del reo termidor decimo sol!
Tu sanguigno ti affacci, e fredda cade
La bionda testa di Saint–Just al suol.

Maledetto sia tu da quante sparte
Famiglie umane ancor piegansi a i re!
Tu suscitasti in Francia il Bonaparte,
Tu spegnesti ne i cor virtude e fé.


21 settembre 1870.


XVIII

PER VINCENZO CALDESI
OTTO MESI DOPO LA SUA MORTE

Dormi, avvolto nel tuo mantel di gloria,
Dormi, Vincenzio mio:
De' subdoli e de' fiacchi oggi è l'istoria
E de i forti l'oblio.

Deh non conturbi te questo ronzare
Di menzogne e di vanti!
No, s'anco le tue zolle attraversare
Potessero i miei canti

E su 'l disfatto cuor sonarti come
La favolosa tromba,
No, gridar non vorrei di Roma il nome
Su la tua sacra tomba.

Pur, se chino su 'l tumolo romito
Io con gentile orgoglio
Dir potessi – Vincenzio, risalito
Abbiamo il Campidoglio, –

Tu scuoteresti via da le fredde ossa
Il torpor che vi stagna,
Tu salteresti su da la tua fossa,
O leon di Romagna,

Per rivederla ancor, Roma, a cui 'l verbo
Di libertà gittasti,
Per difenderla ancor, Roma, a cui 'l nerbo
De la vita sacrasti.

Dormi, povero morto. Ancor la soma
Ci grava del peccato:
Impronta Italia domandava Roma,
Bisanzio essi le han dato.


Marzo 1871.


XIX

FESTE ED OBLII

Urlate, saltate, menate gazzarra,
Rompete la sbarra – del muto dover;
Da ville e da borghi, da valli e pendici,
Plaudite a i felici – di oggi e di ier.

Su, vergini e spose, bramose, baccanti,
Spogliate l'Italia di lauri e di fior,
Coprite di serti, di sguardi fiammanti
Le glorie in parata de i nostri signor.

Deh come cavalca su gli omeri fieri
De' baldi lancieri – la vostra virtù!
O sole di luglio, tra i marmi latini
A gli aurei spallini – lusinghi anche tu.

E mobili flutti di fanti e cavalli
Risuonan pe 'l clivo su 'l fòro latin,
E il canto superbo di trombe e timballi
Insulta i silenzi del sacro Aventin.

Ahi sola de' voti d'un dì la severa
Mia musa, o Caprera, – riparla con te,
E, sola e sdegnosa, de l'orgia romana,
Deserta Mentana, – ti chiede mercé.

Là il vino, la luce, la nota che freme,
Ne i nervi, nel sangue risveglian l'ardor:
Qui trema a la luna con l'aura che geme
Lo stelo riarso d'un pover fior.

E altrove la luna del raggio suo puro
Illumina il giuro – rianima il sì,
Che mormora a un altro languente vezzosa
La vedova sposa – del morto ch'è qui,

O empie insolente la camera mesta
Svegliando a le cure del dubbio diman
La madre che in questo bel giorno di festa
In vano pe' trivi chiedeva del pan.


[ 6 luglio 1871 ].


XX

IO TRIUMPHE!

Dice Furio – Facciam largo a i Camilli
Che vengon dopo un anno.
Io de le trombe galliche a gli squilli
Ritorno, ei fuggiranno. –

E Mario – Spegner l'oste entro i confini
Patrii è barbara cosa.
Trionfo a i nuovi imperador latini,
a i vinti di Custosa! –

E Duilio – Tre zattere di legno
Ed il valor romano
Bastava. Or fuggo: ci vuol troppo ingegno
A essere Persano. –

E Virginio – Che far? Non ho figliuole
Altre da dare agli Appi.
Questo mio ferro vecchio or niun lo vuole
Né men per cavatappi. –

E Tullio – L'orazion mia per costoro
È troppo larga o stretta.
Lasciamo a Stanislao Pasquale il fòro,
E il senato al Pancetta. –

E Tacito – O mie storie ispide e tese,
O mio duro latino,
Cediamo il posto a l'orvietan marchese
Al Bianchi e a Pasqualino. –

E Bruto – Via da questa plebe stolta!
Mi faria com'a un cane
Ne' suoi circensi. Almeno ella una volta
Voleva ancora il pane! –

E Marc'Aurelio – Con questo po' d'oro
Che avanza, io non son gonzo.
Fuggiam, fuggiam, non aspettiam costoro,
O mio caval di bronzo. –

Così gli spirti magni entro il latino
Ciel, di lor fuga mesto.
Trionfa la Suburra, urla Pasquino
– Viva l'Italia! io resto.


2 luglio 1871.


XXI

VERSAGLIA
[ NEL LXXIX ANNIVERSARIO
DELLA REPUBBLICA FRANCESE ]

Fu tempo, ed in Versaglia un proclamava:
– Mio quanto cresce in terra e guizza in mar
E in aer vola. – E il prete seguitava:
– Popolo, dice Dio: Tu non rubar. –

E i boschi verdi, e le argentine linfe
Ridenti in lago o trepide tra i fior,
E il tuo marmoreo popolo di ninfe,
Ed i palagi sfolgoranti d'òr,

Versaglia, sepper quanto in servitude
Quanto d'infame in signoria si può.
– Vo' il tuo campo e la donna e la virtude
Tua – disse un uomo, e niun ripose: No.

Veniano i giovinetti e le donzelle
A inginocchiarsi con l'infamia in man,
E del suo bruto sangue un volgo imbelle
Murò il parco de' cervi al re cristian.

Quand'ei dormia, poggiato a un bianco seno,
Co 'l pugno a l'elsa e in su le teste il piè,
Tutta la Francia da l'Oceano al Reno
Era superba di vegliare il re.

Versaglia, e allor che da un macchiato letto
Ei procedeva a un addobbato altar,
Tu d'orgoglio fremevi, e di rispetto
Vedevi Europa innanzi a lui tremar.

Ei la gloria e il valore, egli le scuole
E l'armi, ei l'arte ed ei la verità,
Egli era tutto in tutti: egli era il sole
Che il mondo illustra, e non s'accorge e sta.

Se Dio lui sostenesse o s'ei sostenne
Dio, non fermaro i suoi sacri orator:
Lo sanno i vostri morti, o pie Cevenne,
Che non credevano al suo confessor.

Il re dal suo lascivo Occhio di bue
Guardava il mondo, piccolo al suo piè;
E Dio, mezzan de le nequizie sue,
Benedicea da l'aureo dòmo il re,

Benedicea le violette ascose
Nel velo virginal de la Vallier,
Benedicea le maritali rose
Nel petto de la Montespan altier,

Benedicea d'Engaddi i freschi gigli
Vedovi in seno de la Maintenon:
E d'un sorriso il re facea vermigli
I neri panni del fedele Aron.

L'ere da le sottane e da i cappelli
La corte e la cittade allor segnò;
Il popol, da le fami e da i flagelli;
Poi da la morte, quando si rizzò.

E il giorno venne: e ignoti, in un desio
Di veritade, con opposta fé,
Decapitaro, Emmanuel Kant, Iddio,
Massimiliano Robespierre, il re.

Oggi i due morti sovra il monumento
Co 'l teschio in mano chiamano pietà,
Pregando, in nome l'un del sentimento,
L'altro nel nome de l'autorità.

E Versaglia a le due carogne infiora
L'ara ed il soglio de gli antichi dì...
Oh date pietre a sotterrarli ancora,
Nere macerie de le Tuglierì.


[ 24 settembre 1871 ].


XXII

CANTO DELL'ITALIA
CHE VA IN CAMPIDOGLIO

Zitte, zitte! Che è questo frastuono
Al lume de la luna?
Oche del Campidoglio, zitte! Io sono
L'Italia grande e una.

Vengo di notte perché il dottor Lanza
Teme i colpi di sole:
Ei vuol tener la debita osservanza
In certi passi, e vuole

Che non si sbracci in Roma da signore
Oltre certi cancelli:
Deh, non fate, oche mie, tanto rumore,
Che non senta Antonelli.

Fate più chiasso voi, che i fondatori
De la prosa borghese,
Paulo il forte ed Edmondo da i languori
Il capitan cortese.

Qua, qua, qua. Che volete voi? Chiamate
Il fratel Bertoldino
O Bernardino? Ei cova, ei ponza, il vate,
Lo stil nuovo latino.

S'ell'è per Brenno, o paperi, sprecata
È omai la guardia. Brava
Io fui tanto e sottil, che sono entrata
Quand'egli se ne andava.

Sì, sì, portavo il sacco a gli zuavi
E battevo le mani
Ieri a' Turcòs: oggi i miei bimbi gravi
Si vestono da ulani.

Al cappellino, o a l'elmo, in ginocchione
Sempre: ma lesta e scaltra
Scoto la polve di un'adorazione
Per cominciarne un'altra.

Così da piede a piè figlia di Roma
I miei baci io trascino,
E giù nel fango la turrita chioma
Con l'astro annesso inchino

Per raccattar quel che sventura o noia
Altrui mi lascia andare.
Così la eredità vecchia di Troia
Potei raccapezzare

A frusto a frusto, via tra una pedata
E l'altra, su bel bello:
Il sangue non è acqua; e m'ha educata
Nicolò Machiavello.

Ora, se date il passo a la gran madre,
Oche, io vo in Campidoglio.
Cittadino roman vo' fare il padre
Cristoforo; e mi voglio

Cingere i lombi di valore, e torte
In rassegnazione,
Oche, io voglio soffrir sino a la morte
Per la mia salvazione.

Voglio soffrire i Taicùn e i Lami,
E il talamo e la culla
Aurea de' muli, e le contate fami,
E i motti del Fanfulla.

Vo' alloggiar co 'l possibile decoro
La gloria del Cialdini,
Cantar l'idillio de l'età de l'oro
Di Saturno Bombrini;

E vo' l'umiltà mia gualdrappare
Di stil manzoniano,
E recitar l'uffizio militare
D'Edmondo il capitano

Per non cader in tentazion. La prosa
Di Paulo Fambri, il grosso
Voltèr de le lagune, è spiritosa
Troppo per il mio dosso:

Gli analfabeti miei, che la lettura
Di poco han superato,
Preferiscon d'assai la dicitura
Più svelta del cognato.

E così d'anno in anno, e di ministro
In ministro, io mi scarco
Del centro destro su 'l centro sinistro,
E 'l mio lunario sbarco:

Fin che il Sella un bel giorno, al fin del mese,
Dato un calcio a la cassa,
Venda a un lord archeologo inglese
L'augusta mia carcassa.


[ 12 novembre 1871 - 11 dicembre 1872 ].


XXIII

GIUSEPPE MAZZINI

Qual da gli aridi scogli erma su 'l mare
Genova sta, marmoreo gigante,
Tal, surto in bassi dì, su 'l fluttuante
Secolo, ei grande, austero, immoto appare.

Da quelli scogli, onde Colombo infante
Nuovi pe 'l mar vedea mondi spuntare,
Egli vide nel ciel crepuscolare
Co 'l cuor di Gracco ed il pensier di Dante

La terza Italia; e con le luci fise
A lei trasse per mezzo un cimitero,
E un popol morto dietro a lui si mise.

Esule antico, al ciel mite e severo
Leva ora il volto che giammai non rise,
– Tu sol – pensando – o ideal, sei vero.


11 febbraio 187.


XXIV

ALLA MORTE DI GIUSEPPE MAZZINI

Quando – Egli è morto – dissero,
Io, che qui sola eterna
Credo la morte, un fremito
Correr sentii l'interna
Vita ed al cuore assiderarmi un gel.
Immortal lui credeva. E gli occhi torbidi
Volsi, chiedendo e dubitando, al ciel.

Ei che d'Italia a l'anime
Fu quel ch'a i corpi il sole,
Del quale udiva io parvolo
Mirabili parole
Sì come d'un fatidico
Spirito tra il passato e l'avvenir,
Egli il cui nome appresermi
Con quei d'Italia, ei non potea morir.

Guardai. D'Italia stavano
Le ville i templi i fòri,
Da le sue torri a l'aure
Splendeano i tre colori,
Fremeano i fiumi i popoli
Ed i pensier con onda alterna, il sol
Rideva a l'alpi al doppio mare a l'isole
Come pur ieri... Ed era morto ei sol.

Passato era de i secoli
Nel dì trasfigurante,
A i mondi onde riguardano
Camillo e Gracco e Dante,
Grandi ombre con immobili
Occhi di stelle a le fluenti età,
E riposa Cristoforo
Colombo e Galileo contempla e sta.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


12 marzo 1872.


XXV

A UN HEINIANO D'ITALIA

Quando a i piaceri in mezzo od a i tormenti
Arrigo Heine crollava
La bionda chioma ed a i tedeschi venti
Le sue strofe gittava,

E le furie e le grazie de la prosa
Folli feroci e schiette
Ei liberava da la man nervosa
Qual gruppo di saette,

L'ombra del suo pensiero, ombra di morte,
Da i suon balzava fuora,
E con la scure in man battea le porte
Gridando – È l'ora, è l'ora! –

Dal viso del poeta atroce e bello
Pendea, ridendo, il dio
Thor, e chiedea, brandendo il gran martello,
– Ch'io picchi, o figliuol mio?

Sotto il vento de' cantici immortali
Piegavano croscianti
Le selve de le vecchie cattedrali
Con le lor guglie e i santi:

Rintoccava, da i culmini ondeggiando,
A morto ogni campana,
E Carlo Magno s'avvolgea tremando
Nel lenzuol d'Aquisgrana.

Quando toccate, o tisicuzzo, voi
Il chitarrin cortese,
Mugghian d'assenso tutti i serbatoi
Del mio dolce paese.

Le canzonette, assettatuzze e matte,
Ed isgrammaticate
Borghesemente, fan cagliare il latte
E tremar le giuncate.

Deh, come erra fantastico il belato
Vostro via per l'acerba
Primavera! O montone, al prato, al prato!
O agnello, a l'erba, a l'erba!

Il garofolo giallo e la viola
Vi sorridon gl'inviti:
Ah ghiottoncello, a voi fanno più gola
I cavoli fioriti?

Brucate, ruminate, meriggiate
E belate a i pastori;
E, se potete, i bei cornetti armate
Pe' i lascivetti amori.

Con due scambietti poi l'ebete grifo
Ponete, oh voi beato!,
Su le ginocchia a Cloe, se non ha schifo
Del puzzo di castrato.


[ 21-22 giugno 1872 ].


XXVI

PER IL QUINTO ANNIVERSARIO
DELLA BATTAGLIA DI MENTANA

Ogni anno, allor che lugubre
L'ora de la sconfitta
Di Mentana su' memori
Colli volando va,
I colli e i pian trasalgono
E fieramente dritta
Su i nomentani tumuli
La morta schiera sta.

Non son nefandi scheletri;
Sono alte forme e belle,
Cui roseo dal crepuscolo
Ondeggia intorno un vel:
Per le ferite ridono
Pie le virginee stelle,
Lievi a le chiome avvolgonsi
Le nuvole del ciel.

– Or che le madri gemono
Sovra gl'insonni letti,
Or che le spose sognano
Il nostro spento amor,
Noi rileviam dal Tartaro
I bianchi infranti petti,
Per salutarti, o Italia,
Per rivederti ancor.

Qual ne l'incerto tramite
Gittava il cavaliero
Il verde manto serico
De la sua donna al piè,
Per te gittammo l'anima
Ridenti al fato nero;
E tu pur vivi immemore
Di chi moria per te.

Ad altri, o dolce Italia,
Doni i sorrisi tuoi;
Ma i morti non obliano
Ciò che più in vita amâr;
Ma Roma è nostra, i vindici
Del nome suo siam noi:
Voliam su 'l Campidoglio,
Voliamo a trionfar. –

Va come fósca nuvola
La morta compagnia,
E al suo passare un fremito
Gl'itali petti assal;
Ne le auree veglie tacciono
La luce e l'armonia,
E sordo il tuon rimormora
Su l'alto Quirinal.

Ma i cavalier d'industria,
Che a la città di Gracco
Trasser le pance nitide
E l'inclita viltà,
Dicon – Se il tempo brontola,
Finiam d'empire il sacco;
Poi venga anche il diluvio:
Sarà quel che sarà.


[ 3 novembre 1872 ].


XXVII

A MESSER CANTE GABRIELLI DA GUBBIO
PODESTÀ DI FIRENZE NEL MCCCI

Molto mi meraviglio, o messer Cante,
Podestà venerando e cavaliero,
Non v'abbia Italia ancor piantato intiero
In marmo di Carrara e dritto stante

Sur una piazza, ove al bel ceffo austero
Vostro passeggi il popolo d'avante,
O primo, o solo ispirator di Dante,
Quando ladro il dannaste e barattiero.

I ceppi per a lui la man tagliare
Voi tenevate presti; ei ne l'inferno
Scampò, gloria e vendetta a ricercare.

Spongon or birri e frati il suo quaderno,
E quel povero veltro ha un bel da fare
A cacciar per la chiesa e pe 'l governo.


Maggio 1874.


XXVIII

LA SACRA DI ENRICO QUINTO

Quando cadono le foglie, quando emigrano gli augelli
E fiorite a' cimiteri son le pietre de gli avelli,

Monta in sella Enrico quinto il delfin da' capei grigi,
E cavalca a grande onore per la sacra di Parigi.

Van con lui tutt'i fedeli, van gli abbati ed i baroni:
Quanta festa di colori, di cimieri e di pennoni!

Monta Enrico un caval bianco, presso ha il bianco suo stendardo
Che coprì morenti in campo San Luigi e il pro' Baiardo.

Viva il re! Ma il ciel di Francia non conosce il sacro segno;
E la seta vergognosa si ristringe intorno al legno.

Più che mai su gli aurei gigli bigio il cielo e freddo appare:
Con la pace de gli scheltri stanno gli alberi a guardare;

E gli augelli, senza canto, senza rombo, tristi e neri,
Guizzan come frecce stanche tra i pennoni ed i cimieri.

Viva il re! Ma i lieti canti ne le trombe e ne le gole
Arrochiscono ed aggelano su le bocche le parole.

Arrochiscono; ed un rantolo faticoso d'agonia
Par che salga su dai petti de l'allegra compagnia.

Cresce l'ombra de le nubi, si distende su la terra,
Ed un'umida tenèbra quel corteggio avvolge e serra.

Dan di sprone i cavalieri, i cavalli springan salti:
Sotto l'ugne percotenti suon non rendono i basalti.

Manca l'aria; e, come attratti i cavalli e le persone
Ne la plumbea d'un sogno infinita regione,

Arrembando ed arrancando per gli spazi sordi e bigi
Marcian con le immote insegne per entrar a San Dionigi.

Viva il re! Giù da i profondi sotterranei de la chiesa
Questa voce di saluto come un brontolo fu intesa:

E da l'ossa che in quei campi la repubblica disperse
Una nube di fumacchi si formava, e fuori emerse

Uno stuolo di fantasmi: donne, pargoli, vegliardi,
Conti, vescovi, marchesi, duchi, monache, bastardi;

Tutti principi del sangue: tronchi, mózzi, cincischiati,
I zendadi a fiordiligi stranamente avvoltolati.

Entro i teschi aguzzi e mondi che parean d'avorio fino
Luccicavano le occhiaie d'un sottil fuoco azzurrino.

Qual brandiva, salutando, un cappel bianco piumato
Con un gracil moncherino che solo eragli avanzato;

Qual con una tibia sola disegnava un minuetto;
Qual con mezza una mascella digrignava un sorrisetto.

Tutt'a un tratto quel movente di maligni ossami stuolo
Scricchiolando e sgretolando si levò per l'aria a volo;

Ed intorno a l'orifiamma dispiegante i gigli gialli
Sgambettando e cianchettando intessea carole e balli,

Ed intorno a l'orifiamma sventolante i gigli d'oro
Sibilando e bofonchiando intonava questo coro.

– Ben ne venga il delfin grigio nel reame ove a' Borboni
Né pur morte guarentisce fide o pie le sue magioni.

Passerem dal Ponte Nuovo. Venga a sciôr la sua promessa
Co 'l re grande che Parigi guadagnò per una messa,

E nel marmo anche par senta co' mustacchi intirizziti
Caldo il colpo e freddo il ghiaccio del pugnal de' gesuiti.

Marceremo a Nostra Donna. Mitriati e porporati
Tre arcivescovi i lor sonni per accoglierne han lasciati.

Su l'entrata sta solenne con l'asperges d'oro in pugno
Quel che tinse del suo sangue gli arsi lastrici di giugno.

In disparte ginocchioni veglia a dire le secrete
Quel che spento fu in sacrato per le mani d'un suo prete.

Benedice la corona del figliuol di San Luigi
Quel che giacque sotto il piombo del comune di Parigi.

Tristi cose. Al men tuo padre (son cortesi i giacobini)
Nel palchetto d'un teatro morì al suon de' violini.

Coprì l'onda de l'orchestra la real confessione,
Salì Cristo in sacramento tra le maschere al veglione.

Farem gala a quel teatro noi borbonica tregenda:
Da quel palco (Iddio ti salvi!) muove, o re, la tua leggenda. –

Così strilla sghignazzando via pe'l grigio aere la scorta.
Ma cavalca il quinto Enrico dritto e fermo in vèr la porta.

Su la porta di Parigi co 'l bacile d'oro in mano
A l'omaggio de le chiavi sta parato un castellano.

Ei non guarda, non fa cenno di saluto, non procede:
Un'antica e fatal noia su le grosse membra siede.

Erto il capo e 'l guardo teso, ma l'orgoglio non vi raggia:
Una tenue per il collo striscia rossa gli viaggia.

Non pare ordine o collare che il re doni al suo fedele:
Non è quel di San Luigi, non è quel di San Michele.

Al passar d'Enrico, ei muove a test'alta e regalmente;
Fende in mezzo il gran corteggio: ciascun vede e niun lo sente.

È a la staffa già d'Enrico; ma non piega ad atto umìle,
E tien dritto e fermo il collo mentre leva su il bacile.

– Ben ne venga mio nipote, l'ultim'uom de la famiglia!
Queste chiavi ch'io ti porgo fur catene a la Bastiglia.

Tali al Tempio io le temprava. – Con l'offerta fa l'inchino
Ed il capo de l'offrente rotolava nel bacino;

Ed il capo di Luigi con l'immobile occhio estinto
Boccheggiante nel bacino riguardava Enrico quinto.


[ Novembre 1873 ].


XXIX

A PROPOSITO DEL PROCESSO FADDA

I

Da i gradi alti del circo ammantellati
Di porpora, esse ritte
Ne i lunghi bissi, gli occhi dilatati
Le pupille in giù fitte,

Abbassavano il pollice nervoso
De la mano gentile.
Ardea tra bianche nuvole estuoso
Il sol primaverile

Su le superbe, e ne la nera chioma
Mettea lampeggiamenti.
Fremea la lupa nutrice di Roma
Ne i lor piccoli denti,

Bianchi, affilati, tra le labbra rosse
Contratte in fiero ghigno.
Un selvatico odor su da le fosse
Vaporava maligno.

Era il sangue del mondo che fervea
Con lievito mortale,
Su cui provava già Nemesi dea
Al vol prossimo l'ale.

E le nipoti di Camilla, pria
Di cedere le mani
A i ferri, assaporavan l'agonia
De' cerulei Germani.


II

Voi sgretolate, o belle, i pasticcini
Tra il palco e la galera;
Ed intente a fornir di cittadini
La nuova italica èra,

Studiate, e gli occhi mobili dan guizzi
Di feroce ideale,
Gli abbracciamenti de' cavallerizzi
Tra i colpi di pugnale;

E palpate con gli occhi abbracciatori
Le schiene ed i toraci,
Mentre rei gerghi tra sucidi odori
Testimonian su i baci.

Poi, se un puttin di marmo avvien che mostri
Qualcosellina al sole,
Protesterete con furor d'inchiostri,
Con fulmin di parole.

E pur ieri cullaste il figliuoletto
Tra i notturni fantasmi
Co 'l piè male proteso fuor del letto
Ne gli adulteri spasmi.

Ma voi siete cristiane, o Maddalene!
Foste da' preti a scuola.
Siete moderne! avete ne le vene
L'Aretino e il Loiola.


Ottobre 1879.


XXX

IL CANTO DELL'AMORE

Oh bella a' suoi be' dì Rocca Paolina
Co' baluardi lunghi e i sproni a sghembo!
La pensò Paol terzo una mattina
Tra il latin del messale e quel del Bembo.

– Quel gregge perugino in tra i burroni
Troppo volentier – disse – mi si svia.
Per ammonire, il padre eterno ha i tuoni,
Io suo vicario avrò l'artiglieria.

Coelo tonantem canta Orazio, e Dio
Parla tra i nembi sovra l'aquilon.
Io dirò co' i cannoni: O gregge mio,
Torna a i paschi d'Engaddi e di Saron.

Ma, poi che noi rinnovelliamo Augusto,
Odi, Sangallo: fammi tu un lavoro
Degno di Roma, degno del tuo gusto,
E del ponteficato nostro d'oro. –

Disse; e il Sangallo a la fortezza i fianchi
Arrotondò qual di fiorente sposa:
Gittolle attorno un vel di marmi bianchi,
Cinse di torri un serto a l'orgogliosa.

La cantò il Molza in distici latini;
E il paracleto ne la sua virtù
Con più che sette doni a i perugini
In bombe e da' mortai pioveva giù.

Ma il popolo è, ben lo sapete, un cane,
E i sassi addenta che non può scagliare,
E specialmente le sue ferree zane
Gode ne le fortezze esercitare;

E le sgretola; e poi lieto si stende
Latrando su le pietre ruinate,
Fin che si leva e a correr via riprende
Verso altri sassi ed altre bastonate.

Così fece in Perugia. Ove l'altera
Mole ingombrava di vasta ombra il suol
Or ride amore e ride primavera,
Ciancian le donne ed i fanciulli al sol.

E il sol nel radiante azzurro immenso
Fin de gli Abruzzi al biancheggiar lontano
Folgora, e con desio d'amor più intenso
Ride a' monti de l'Umbria e al verde piano.

Nel roseo lume placidi sorgenti
I monti si rincorrono tra loro,
Sin che sfumano in dolci ondeggiamenti
Entro i vapori di viola e d'oro.

Forse, Italia, è la tua chioma fragrante
Nel talamo, tra' due mari, seren,
Che sotto i baci de l'eterno amante
Ti freme effusa in lunghe anella al sen?

Io non so che si sia, ma di zaffiro
Sento ch'ogni pensiero oggi mi splende,
Sento per ogni vena irmi il sospiro
Che fra la terra e il ciel sale e discende.

Ogni aspetto novel con una scossa
D'antico affetto mi saluta il core,
E la mia lingua per sé stessa mossa
Dice a la terra e a al cielo, Amore, amore.

Son io che il cielo abbraccio, o da l'interno
Mi riassorbe l'universo in sé?...
Ahi, fu una nota del poema eterno
Quel ch'io sentiva e picciol verso or è.

Da i vichi umbri che foschi tra le gole
De l'Apennino s'amano appiattare;
Da le tirrene acròpoli che sole
Stan su i fioriti clivi a contemplare;

Da i campi onde tra l'armi e l'ossa arate
La sventura di Roma ancor minaccia;
Da le ròcche tedesche appollaiate
Sì come falchi a meditar la caccia;

Da i palagi del popol che sfidando
Surgon neri e turriti incontro a lor;
Da le chiese che al ciel lunghe levando
Marmoree braccia pregano il Signor;

Da i borghi che s'affrettan di salire
Allegri verso la cittade oscura,
Come villani ch'hanno da partire
Un buon raccolto dopo mietitura;

Da i conventi tra i borghi e le cittadi
Cupi sedenti al suon de le campane
Come cucùli tra gli alberi radi
Cantanti noie ed allegrezze strane;

Da le vie, da le piazze gloriose,
Ove, come del maggio ilare a i dì
Boschi di querce e cespiti di rose,
La libera de' padri arte fiorì;

Per le tenere verdi mèssi al piano,
Pe' vigneti su l'erte arrampicati,
Pe' laghi e' fiumi argentei lontano,
Pe' boschi sopra i vertici nevati,

Pe' casolari al sol lieti fumanti
Tra stridor di mulini e di gualchiere,
Sale un cantico solo in mille canti,
Un inno in voce di mille preghiere:

– Salute, o genti umane affaticate!
Tutto trapassa e nulla può morir.
Noi troppo odiammo e sofferimmo. Amate.
Il mondo è bello e santo è l'avvenir. –

Che è che splende su da' monti, e in faccia
Al sole appar come novella aurora?
Di questi monti per la rosea traccia
Passeggian dunque le madonne ancora?

Le madonne che vide il Perugino
Scender ne' puri occasi de l'aprile,
E le braccia, adorando, in su 'l bambino
Aprir con deità così gentile?

Ell'è un'altra madonna, ell'è un'idea
Fulgente di giustizia e di pietà:
Io benedico chi per lei cadea,
Io benedico chi per lei vivrà.

Che m'importa di preti e di tiranni?
Ei son più vecchi de' lor vecchi dèi.
Io maledissi al papa or son dieci anni,
Oggi co 'l papa mi concilierei.

Povero vecchio, chi sa non l'assaglia
Una deserta volontà d'amare!
Forse ei ripensa la sua Sinigaglia
Sì bella a specchio de l'adriaco mare.

Aprite il Vaticano. Io piglio a braccio
Quel di sé stesso antico prigionier.
Vieni: a la libertà brindisi io faccio:
Cittadino Mastai, bevi un bicchier!


[ Ottobre 1877 - gennaio 1878 ].



EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Giosue Carducci - Poesie", a cura di Raffaele Sirri, Casa Editrice Fulvio Rossi, Napoli, 1969







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